di Alessandro Giugni
Nell’ultimo appuntamento di questa rubrica abbiamo, da un lato, introdotto il tema dell’elementarietà della fotografia e, dall’altro, abbiamo ripercorso alcune tappe fondamentali dell’affermazione dell’uso dei tempi di posa lunghi (clicca qui per leggere l’articolo in questione).
Riprendendo la riflessione di Jorge Luis Borges con la quale avevamo introdotto le due suddette tematiche, possiamo oggi compiere un passo ulteriore nell’approfondimento di uno dei generi fotografici di maggior successo: la ritrattistica. Prima di procedere a qualsivoglia disquisizione, è quanto mai fondamentale operare un distinguo tra il ritratto selettivo operato nel mondo della pittura e il ritratto istantaneo realizzato dal fotografo.
Nel suo illuminante saggio Il volto e il ritratto. Saggio sull’Arte, George Simmel, uno dei padri fondatori della sociologia, evidenziò come ciò che noi vediamo quando guardiamo un’altra persona sia «una variopinta mescolanza tra quel che viene veramente visto e integrazioni esterne ed interne, reazioni sentimentali, apprezzamenti, collegamenti con movimenti e luoghi circostanti». Da tale riflessione emergono due elementi: in primis, ciò che viene visto dai nostri occhi non per forza corrisponde a ciò che è fisicamente visibile, in quanto essi non sono in grado di cogliere ogni peculiarità del volto di chi si trova davanti a noi; in secundis, viene evidenziata la capacità della nostra mente di percepire molto più di quanto l’apparato visivo possa effettivamente vedere. Secondo Simmel, dunque, l’unica via per portare alla luce ciò che di un essere umano il semplice atto meccanico del guardare non può cogliere è fare ricorso alla pittura. Questo in quanto il pittore, nell’atto del ritrarre, è l’unico a poter far emergere «il meramente visibile dalla realtà confusa dell’uomo», rivelando del soggetto ritratto un elemento psichico superiore all’immediatezza sensibile.
Il fotografo, al contrario del pittore, esegue un ritratto istantaneo: egli, con la sua macchina fotografica, fissa su supporto (che può essere una lastra di metallo, una striscia di pellicola o, più recentemente, un file digitale) un frammento di eternità. Le sensazioni che la vista di una fotografia di una persona cara, soprattutto quando essa viene meno alla vita terrena, provoca nell’osservatore sono spesso quelli di angoscia e inquietudine. Questo perché quell’immagine costituisce una finestra sulla permanenza della nostra vita nel suo essere parte di un flusso eterno di infinite vite. Sebbene di primo impatto sia pressoché indiscutibile quanto poc’anzi detto, da un’indagine più attenta emerge il vero potere di un ritratto fotografico: in esso non vi è mai la morte, bensì l’istantanea di un frammento di quella danza infinita che chiamiamo vita.
Alcuni studiosi ritengono, poi, che dai volti delle persone ritratte in una fotografia possano essere colti segnali tanto della loro personalità quanto del loro destino. Un pensiero questo che è stato sintetizzato nel brocardo “Il volto è lo specchio dell’anima”. Se è vero che le espressioni del viso impresse in un ritratto possono lasciar trasparire emozioni, sentimenti e pensieri, difficilmente si può sostenere che un’immagine fissata in un particolare momento della vita di ciascuno di noi possa rivelarne il destino.
Un fulgido esempio di ciò ci è dato da Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, in una delle sue poesie di maggior successo, La prima fotografia di Hitler, che così recita: «E chi è questo pupo in vestina? / Ma è Adolfino, il figlio del signor Hitler! / diventerà forse un dottore in legge /o un tenore dell’opera di Vienna? / Di chi è questa manina, di chi, / e gli occhietti, il nasino? / Di chi il pancino pieno di latte, /ancora non si sa: / d’un tipografo, d’un mercante, d’un prete? / Dove andranno queste buffe gambette, dove? / Al giardinetto, a scuola, in ufficio,/ alle nozze magari con la figlia del sindaco? / Bebè, angioletto, tesoruccio, / piccolo raggio, / quando un anno fa veniva al mondo / non mancavano segni / nel cielo e sulla terra: / un sole primaverile, gerani alle finestre, / musica d’organetto nel cortile, / un fausto presagio nella carta velina rosa, / prima del parto / un sogno profetico della madre: /se sogni un colombo – è una lieta novella, / se lo acchiappi – giungerà a chi hai a lungo atteso. / Toc, toc, chi è?/ è il cuoricino di Adolfino. / Ciucciotto, pannolino, / bavaglino, sonaglio, / il bimbetto, / lodando Iddio e toccando ferro, / è sano./ Somiglia ai genitori, / al gattino nel cesto, / ai bambini / di tutti gli album di famiglia. / Beh, adesso non piangeremo mica, / il fotografo farà clic sotto la tela nera. / Atelier Klinger, Grabenstrasse Braunau, / e Braunau è una cittadina piccola, / ma dignitosa, / ditte solide, vicini dabbene, / profumo di torta e di sapone da bucato. / Non si sentono cani ululare / né i passi del destino. / L’insegnante di storia allenta il colletto / e sbadiglia sui quaderni.»