Dopo la fine della guerra di Troia, gli eroi greci tornano alle loro case con il bottino saccheggiato dalla ricca città. Tra di loro troviamo Ulisse, ricopertosi di fama e di onori, che riparte per Itaca con un ricco bottino e con ben dodici navi. Il numero dodici è un numero simbolico che rimanda ai dodici segni zodiacali, ai dodici apostoli, alle tribù di Israele ed è simbolo di completezza e di passaggio. Per gli ebrei, all’età di dodici anni, erano previsti riti che testimoniavano il passaggio del bambino all’età adulta. Il viaggio di Ulisse inizia con questa indicazione.
L’Odissea è costellata da figure femminili, Penelope, Nausica, Circe, Calipso e la dea Atena, protettrice di Ulisse. Nemico del Re di Itaca è Poseidone, dio dei mari, e padre dei Ciclopi, rappresentante il dominio degli istinti, l’abisso, il lato oscuro. Se si traccia una sintesi grossolana, l’Odissea è la guerra fra Atena e Poseidone, fra luce e ombra, fra intelligenza e istinto. La stessa presenza femminile, che ad una lettura antropologica rimanda alla cultura matriarcale mediterranea, rappresenta quella forza trasmutante che ritroviamo nella figura della Dama dei romanzi cavallereschi. La stessa dea Atena, guida del navigatore è la raffigurazione sotto altre vesti della Sapienza. Animale sacro alla dea era la civetta, uccello notturno che riesce a vedere al buio ed essendo un animale dell’aria partecipa della natura del cielo.
Ulisse durante il viaggio affronta tutta una serie di prove, perde navi, bottino e uomini e fra le varie prove si reca anche agli inferi, dove incontra le anime di sua madre e quella dell’indovino Teresia. Torna quasi nudo, solo e senza uomini, senza bottino e senza navi ad Itaca, simbolicamente a rappresentare il suo spirito purificato ripulito dalle scorie dell’essere. Ha perso i suoi istinti ormai, completamente dominati e la sua trasformazione si avvia a completarsi. La flotta di Ulisse, con le navi e gli uomini, rappresenta aspetti dell’individualità non ricondotti ad unità: al termine del viaggio l’Ego è purificato e si può ricongiungere con il Sé.
Un altro significato che possiamo associare alle dodici navi, legato ai dodici mesi e alle costellazioni è quello dello scorrere del tempo. La loro distruzione rappresenta l’annientamento del tempo, il superamento della dimensione temporale e il raggiungimento dello stato dell’eterno presente. Verso la fine dell’avventura Ulisse è ospite della corte dei Feaci, che mossi a compassione per le sue peripezie, decidono di portarlo ad Itaca. Una volta sulla nave, l’eroe sprofonda in un sonno simile alla morte. Giunti sull’isola, i Feaci, scaricano Ulisse sulla spiaggia mentre sta ancora dormendo, lasciandogli accanto dei doni. Un po’ curioso questo sonno simile alla morte, da cui Ulisse non si sveglia neanche quando viene preso di peso e lasciato a terra.
La nave rappresenta un tramite per un altro mondo e il sonno simile alla morte, sta a simboleggiare la morte e la rinascita iniziatica. Ulisse ha raggiunto un grado di elevazione in cui spazio e tempo spariscono, per lo meno nel senso ordinario.
Svegliatosi ad Itaca, la dea Atena, lo maschera da mendicante. Il travestimento ha ancora un significato di rinascita e si presenta nella sua casa sotto mentite spoglie per poi svelarsi. È sconosciuto e poi si fa riconoscere come re di Itaca.
Il travestimento da mendicante ricorda un po’ il Matto o Viandante dei tarocchi, con i suoi vestiti laceri con cui va in giro per il mondo e anche l’animale, forse un cane, rappresentato in alcune carte mentre lo tormenta, ricorda Argo, il vecchio cane di Ulisse.
Penelope decide di sottoporre i Proci alla prova dell’arco appartenuto ad Ulisse che nessuno riesce a tendere. Preparato l’arco, c’è l’ulteriore prova di riuscire a scoccare una freccia infilando dodici anelli di ferro. I Proci, nonostante vari tentativi, non riescono neanche a infilare l’occhiello della corda all’estremità dell’arco. Ulisse, sempre mascherato da mendicante, si cimenta nella prova dell’arco, riuscendovi e dando inizio al massacro dei suoi nemici.
La prova dell’arco ha la funzione di riconoscere Ulisse nonostante il travestimento: l’arco svela e rimanda al cielo. Nella prova ritroviamo il numero dodici nel numero degli anelli che deve essere attraversato dalla freccia. La prima prova è piegare l’arco per infilarci la corda per tenderlo e Ulisse è l’eroe greco noto per l’intelligenza non per la forza. La prova ha funzione di svelare la vera identità di Ulisse, quasi che l’arco come la spada di Artù aspetti il suo vero proprietario riconoscendone il ruolo di sovrano. Dopo aver infilato i dodici anelli, Ulisse si svela e viene riconosciuto.
Penelope è la forza trasfigurante di cui parla Evola, la Sapienza da possedere. I Proci cosa rappresentano? Si insinuano, una sorta di cattivi pensieri che tengono separati lo Spirito dalla Sapienza. I Proci devono essere sacrificati. Al di là del senso letterale, con la più che naturale reazione di un uomo che tornato a casa la trovi invasa, la moglie insidiata e il figlio Telemaco che ha dovuto subire anni di angherie, i Proci rappresentano ancora una volta gli istinti e i vizi, l’orgoglio, la lussuria, la pigrizia, e devono essere sacrificati per poter ricongiungersi con il Sé. Penelope non si concede ai Proci che sono dominati dagli istinti, ma si concede ad Ulisse che quegli istinti sacrifica. I Proci si frappongono fra Ulisse e Penelope e impediscono il ricongiungimento degli opposti. Penelope riconosce Ulisse solo dopo che questi ha descritto come ha costruito il letto nuziale. Un riferimento ben preciso al matrimonio sacro.
Anche Laerte ha difficoltà a riconoscere il figlio, il che potrebbe apparire normale dopo venti anni e le peripezie che avranno cambiato il volto di Ulisse, ma possiamo scorgerci un riferimento all’uomo nuovo. Odisseo è cambiato, è trasfigurato e non è più riconoscibile. Questi episodi in cui moglie e padre non riconoscono Ulisse in qualche modo rimandano alla manifestazione di Gesù a Maria Maddalena e agli apostoli dopo la resurrezione. Il Messia non viene subito riconosciuto ed è costretto a farsi riconoscere tramite la parola o mostrando le ferite.
di Vito Foschi