di Alan Patarga
Dice il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, che in Italia ci sono 19 milioni di evasori fiscali.
E a chi gli chiedeva – qualche giorno fa – se non fosse il caso di mandarli in galera, come accade in America per chi tradisce il patto fiscale con lo Stato, il capo della riscossione italiana ha replicato, in modo apparentemente accomodante, che sarebbe meglio lasciarli lavorare “per poter ripagare il loro debito”.
Quanta grazia, in queste parole. Ma il fisco amico è una favola per pochi illusi, perché per capire cosa intenda per evasore il numero uno dell’Agenzia delle Entrate è sufficientemente pescare tra le sue parole: “Circa 19 milioni di persone che hanno
almeno una cartella esattoriale pendente”.
BASTA UNA CARTELLA
Non sapevo di essere un evasore fiscale, e come me probabilmente non lo sanno altri milioni di cittadini, onesti contribuenti magari a reddito fisso. Eppure, siamo tutti là: nel mucchio degli evasori. A me una cartella arriva tutti gli anni, nello stesso
periodo dell’anno, per esempio: è quella emessa per disposizione dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, che da qualche anno ha deciso di far riscuotere con questa modalità la quota associativa annuale. Ma le statistiche non fanno differenze
e scommetto che le cartelle di noi giornalisti, e altre simili, servano a ingrossare quel numerone – 19 milioni! – utile a far sentire in difetto almeno mezza Italia.
La verità è che ricevere una cartella non equivale a essere un evasore: al di là della quota di iscrizione all’Ordine, o a fattispecie simili, possono esserci multe per contravvenzioni stradali non pagate per semplice dimenticanza, cifre più o meno irrisorie gonfiate da interessi e sanzioni accessorie. Insomma: piccole mancanze di gente che molto spesso paga sempre e paga tutto, fino all’ultimo centesimo.
Un’altra statistica dice che la stragrande maggioranza delle cartelle esattoriali è di importo modesto: sotto i 1.000 euro. E il buonsenso suggerisce di dire che per ricevere una cartella occorre avere un’identità fiscale riconoscibile, un indirizzo di recapito: insomma, non essere un fantasma.
I FANTASMI FISCALI SONO ALTRI
Succede così che nell’anatema anti evasori, in quella cifra a effetto dei 19 milioni di italiani che in qualche modo avrebbero “rubato” i soldi al fabbisogno dello Stato, e pertanto di noi tutti, manchi proprio chi evasore lo è davvero: gli sconosciuti al fisco,
quelli con residenze estere fittizie o società di comodo pronte a schermare affari e redditi che restano, quelli sì, veramente esentasse. E senza l’incomodo nemmeno di essere additati: loro non ci sono, il bersaglio immobile dell’esecrazione siamo noi.
Noi che un indirizzo lo abbiamo, e qualche volta forse avremo lasciato indietro un pagamento di modesta entità – per distrazione o perché il bilancio familiare o aziendale diceva che non ce n’era più – e per questo siamo chiamati a pagare due
volte: versando il dovuto (approfittando al limite di qualche rottamazione che per lo più esonera da interessi e sanzioni) e sentendoci anche chiamare evasori. Ma così, legati all’onestà e al fatto di non cercare scorciatoie per scomparire ai radar
dell’erario, finiamo per diventare servi. Della gleba fiscale.