di Alan Patarga
Chiamarla “tempesta perfetta” potrebbe apparire un trito luogo comune, ma difficilmente un’altra situazione si presterebbe meglio alla definizione. Nell’ordine abbiamo: una guerra (relativamente) alle porte in corso, con annessa minaccia di restare senza forniture energetiche e quindi con le case al freddo e le fabbriche ferme di qui a qualche mese; l’inflazione più alta dal 1986; la Bce che invece di rendersi conto dell’eccezionalità della situazione e disinnescare la crisi economica decide di essere prociclica imputandosi su un assurdo rialzo dei tassi che chiuderà i rubinetti del credito a famiglie e imprese proprio quando ne avrebbero più bisogno; il Covid che rialza la testa e, sebbene la pandemia spaventi meno di prima, non è facile capire se riusciremo in autunno e poi in inverno a tentare una vita normale per la prima volta in 3 anni. Un simpaticone a questo punto direbbe che “mancano solo le cavallette”, ma a ben vedere anche i disastri climatici – a prescindere da chi o cosa ne sia l’artefice – ci stanno facendo compagnia in questa fase.
LA “QUOTA 31” DEGLI OTTIMISTI
Non manca nulla, anzi: mancava una cosa, picconare uno dei governi più autorevoli (specialmente agli occhi delle cancellerie straniere) della storia repubblicana, sostenuto da una maggioranza di unità nazionale che alla prova dei fatti – e all’approssimarsi del voto – non si è rivelata tale. Ora, posto che da qui a mercoledì prossimo con la “parlamentarizzazione” della crisi imposta dal presidente Mattarella tutto potrà succedere, e anche il suo contrario, è chiaro fin d’ora che in palio non ci sia soltanto la stabilità di un Paese politicamente fragile da sempre, ma anche il prezzo che un rovescio di Draghi avrebbe sulle finanze pubbliche e di conseguenza sulle tasche degli italiani.
Il conto è complicato, azzardare una cifra può essere allettante ma anche limitativo. Per dire: un giornalista di grande esperienza come Roberto Sommella, direttore di Milano Finanza, si è lanciato in una stima di 31 miliardi di euro. Inguaribile ottimista, ha messo insieme due cifre: i 10 miliardi attesi dal Decreto Aiuti bis che l’esecutivo avrebbe dovuto licenziare entro il mese di luglio, con provvedimenti per sostenere famiglie e attività produttive alle prese con i rincari e la crisi dell’energia, e poi i 21 miliardi della prossima tranche di fondi europei (in parte a fondo perduto, in parte prestiti da restituire) che la Commissione europea pagherà nei prossimi mesi a patto che l’Italia dimostri di aver fatto i “compiti a casa”, nello specifico 66 riforme da varare entro il 31 dicembre di cui 23 leggi e 43 decreti attuativi. Tradotto in punti di Pnrr, 16 “target” e 39 “milestone” da centrare.
SALARI ED ENERGIA
Purtroppo, l’elenco dei costi di questa crisi di governo al buio non termina qui, però. C’è sul tavolo da tempo, per esempio, il nodo dei salari: i nostri, dati Ocse alla mano, sono i soli in tutta l’area ad essere calati mediamente rispetto al 1990. Confindustria e le altre associazioni datoriali premono da tempo per un alleggerimento del carico fiscale sul lavoro, con un taglio del cosiddetto “cuneo” che rappresenta la distanza effettiva tra netto e lordo in busta paga. I sindacati non sono contrari, anzi, sebbene alcuni (Cgil in testa, molto ascoltata dal ministro del Lavoro, Orlando) pretendano anche un intervento per varare anche in Italia un salario minimo che garantisca paghe base dignitose ai lavoratori non coperti dai contratti nazionali di categoria. Punto di difficile attuazione, per la contrarietà dell’ala destra della maggioranza, ma sul taglio del cuneo – a patto di reperire le risorse – il consenso sarebbe ampio: servirebbero almeno 15 miliardi, il ministro del Tesoro Franco aveva lasciato intendere di averne trovati già 5 o 6.
Poi c’è l’emergenza vera e propria: garantire l’operatività del Paese in un inverno che potrebbe rivelarsi tra i più drammatici nella storia italiana in tempo di pace. Nei giorni scorsi sono filtrati piani di razionamento, con ipotesi di riduzione del 60% dell’illuminazione pubblica, limiti all’erogazione di energia verso case e stabilimenti produttivi, chiusura dei negozi non oltre le 19. Un ritorno all’austerity anni Settanta, nel migliore dei casi, ma senza il ricordo fresco dei sacrifici di guerra a smorzare il malcontento. Potenzialmente, una bomba politica oltre che sociale. La cronaca della corsa alle forniture dice che siamo messi così così: stoccaggi al 63%, con un obiettivo del 90% auspicato dall’Unione europea e dal buonsenso, ma a costi di riempimento talmente elevati che è legittimo attendersi bollette triple nei prossimi mesi rispetto a quelle già salatissime di adesso. Navi metaniere faticosamente reperite a prezzi esorbitanti da Snam (fenomeni veri nell’accaparrarsele) ma che potremo vedere all’opera come rigassificatori non prima del prossimo anno. Insomma, un disastro che settimane di immobilismo dovuto al gioco delle trattative per formare un nuovo esecutivo, o mesi di campagna elettorale qualora andassimo a votare a ottobre, finirebbero per amplificare oltre il limite della sopportazione del Paese.
E POI C’È LO SPREAD
A tutto questo, però, va sommato il prezzo più alto di tutti. Quello della reputazione. Defenestrare Draghi, agli occhi delle altre potenze politiche e soprattutto di quelle finanziarie, potrebbe essere (e lo sarà) letto come il calcio del somaro di una nazione incapace di riformarsi, insomma ci restituirebbe la patente di inaffidabili che il prestigio di Super Mario per un po’ ci aveva tolto. Questo non vuol dire tanto che le Borse continueranno a crollare: passato lo choc iniziale, i mercati proseguiranno nel loro ordinario tran-tran di rialzi e ribassi. Quando vi dicono che Piazza Affari ha “bruciato” miliardi, qualcuno vi prende in giro: il giorno dopo se ne “bruceranno” altri, forse, quello dopo ancora magicamente risorgeranno come fenici. Il punto sono, e saranno, i titoli di Stato: i Btp decennali, vera pietra di paragone della solidità del Paese, sono schizzati a rendimenti superiori al 3%. L’effetto Draghi, un anno e mezzo fa, li aveva ricacciati inizialmente addirittura sotto quota 1%. Significa che ripagare il debito ci costa oggi il triplo, in termini di interessi, di quando il capo dello Stato decise di affidare le sorti del Paese all’ex presidente della Bce. Equivale a dire che qualcosa s’è rotto, nella fiducia internazionale, e che i prossimi avvenimenti – se la responsabilità non dovesse prevalere – rischiano di spedirci rapidamente verso la soglia del 7%. Nel 2011, quando c’era da far fuori Berlusconi, ci avevano spiegato fosse quella la soglia di non ritorno, quando insomma l’unico scenario che resta è quello del default. E allora addio stoccaggi, e altro che negozi chiusi alle 19. Negozi chiusi. E basta.