Il decreto che avvia le procedure per la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina è stato bollinato dalla Ragioneria generale dello Stato e firmato dal presidente Mattarella. Contemporaneamente, il governo Meloni ha varato anche il nuovo (e discusso) Codice degli appalti, che si ripromette di semplificare molto le assegnazioni dei lavori, rendendo anche possibili gli affidamenti a pioggia pur di non bloccare i cantieri, ma al tempo stesso puntando molto su digitalizzazione e trasparenza. Sulla carta, sfide enormi e non prive di rischi, che però saranno decisive per dire se il nostro si confermerà il solito Paese inconcludente o un’Italia capace di recuperare il divario tecnologico e infrastrutturale che l’ha penalizzata negli ultimi decenni.
COME LA DC CON L’AUTOSOLE?
A gestire questi dossier sarà Matteo Salvini. Il leader della Lega, nella veste di vicepremier e ministro delle Infrastrutture, sta mostrando un approccio pragmatico: ci sta mettendo la faccia, ma soprattutto sta mantenendo gli impegni presi in campagna elettorale. La sfida del Ponte sullo Stretto, peraltro, ha molto più a che fare con la questione meridionale – e quella siciliana in particolare – di quanto possa sembrare: perché l’isola possa trasformarsi in un hub mercantile ed energetico che sfrutti il suo storico e immenso potenziale di perno del Mediterraneo, è indispensabile che possieda un collegamento veloce al continente. Al tempo stesso, però, realizzare un’opera di cui si favoleggia dai tempi del governo Zanardelli, cioè dalla seconda metà dell’Ottocento, significherebbe segnare un punto d’immagine decisivo nei confronti degli investitori esteri. Come dire: pensiamo in grande e siamo affidabili. Un po’ quel che accadde ai tempi del boom economico, quando la Dc di governo trovò le risorse materiali ma anche spirituali per completare opere ciclopiche in pochissimo tempo, basti pensare all’Autostrada del Sole.
DAL PNRR UN CAMPANELLO D’ALLARME
Teoricamente, il nuovo Codice degli appalti dovrebbe garantire cantieri meno soggetti a blocchi, e dunque una capacità di programmazione dei lavori pubblici da Paese avanzato. Insomma: il Ponte come cartina di tornasole di un sistema nuovo, libero da “lacci e lacciuoli” come da trent’anni ripete Silvio Berlusconi, ma che non si limiti a una sola grande opera, per quanto attesa e simbolica. Una sorta di “modello Genova” esteso a tutto il Paese, come auspicato da qualche anno a questa parte dopo il successo della ricostruzione del Ponte ex Morandi. Peccato che i dati non depongano a nostro favore. Quelli del Pnrr, in particolare, dicono che finora nonostante il copioso afflusso di fondi da Bruxelles la messa a terra dei lavori sia una chimera o quasi: appena il 6% dei cantieri avviati, per non parlare dei primi intoppi nel raggiungimento dei target fissati dall’Unione, che l’esecutivo attuale imputa (non senza qualche ragione) al gabinetto Draghi. Recuperare il tempo perduto non sarà facile e la storia dei fondi europei da restituire, ogni tot anni, perché regioni ed enti locali non sono stati in grado di spenderli è là a testimoniare la cronica incapacità italiana di cogliere le opportunità al momento giusto. Quella del Ponte appare, così, come un’ultima chiamata: i lavori, stando al cronoprogramma fissato dallo stesso governo, potrebbero partire nel giugno del 2024. Esattamente tra 14 mesi. Il tempo che ci resta per dire al mondo chi siamo, o chi vorremmo essere.
di Alan Patarga