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giovedì, 21 Novembre, 2024

Il Rendiconto di Alan Patarga. PERCHÈ ALLA POESIA DELLE RINNOVABILI FAREMMO MEGLIO A PREFERIRE LA PROSA DI ATOMI E TRIVELLE

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“Ciò che una donna dice a chi l’ama, scrivilo nel vento o nell’acqua che scorre”. Basterebbe aver letto Catullo, e questo suo celebre verso in particolare, per capire il paradosso energetico italiano. Le risorse le abbiamo: sole a sufficienza per illuminare infinite schiere di pannelli, vento in quantità per far roteare pale degne della furia di don Chisciotte, eccetera eccetera. E però, come le promesse fatte dalla bella Lesbia al poeta latino, sono tutte cose che non si possono in alcun modo trattenere. Problema di stoccaggio, dicono meno liricamente i tecnici: insomma, le rinnovabili più che il futuro sono l’attimo fuggente dell’energia.

Il racconto di queste settimane, con le bollette di luce e gas che diventano più care trimestre dopo trimestre (in quello appena cominciato l’Area, l’authority di settore, ha pronosticato un balzo del 55% per l’elettricità e del 41,8% per il metano), è esattamente la fotografia di questo sogno, bello e impossibile: riuscire a cavarcela con la poesia delle rinnovabili, affascinanti appunto ma sfuggenti, quando avremmo bisogno della prosa asciutta ma concreta di fonti energetiche affidabili, conservabili, e possibilmente nostre.

Non si tratta di sovranismo. L’Italia, ma potremmo tranquillamente allargare il discorso all’Europa (ed è quello che stanno provando a fare, da un po’ di tempo a questa parte, il premier Draghi e il ministro della Transizione ecologica, Cingolani, quando chiedono un sistema comune di stoccaggio), dipende in misura eccessiva dalle forniture estere. Di gas naturale, soprattutto, prima voce del nostro mix energetico nazionale. Se il prezzo praticato dai nostri fornitori cresce, o se ci si mette di mezzo la geopolitica (più di una volta abbiamo temuto la chiusura dei rubinetti russi per ripicche tra Mosca e Kiev), non abbiamo strumenti per difenderci. Eppure, la storia e i dati dicono che le risorse le avremmo: la miopia della politica, incapace di programmare per più di un trimestre o due, e le campagne ambientaliste, con i boicottaggi dei No Triv, hanno portato ai minimi storici l’attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi nel nostro Paese. Giacimenti inutilizzati, mentre ci sveniamo per pagare quello che già avremmo nel sottosuolo o in mezzo al mare. Si calcola che l’Italia abbia riserve di metano pari a 90 miliardi di metri cubi, estraibili al costo di 5 centesimi al metro cubo, come stimato da Nomisma Energia. Ebbene, rinunciando a servircene ci condanniamo a pagare il gas dieci volte tanto a chi ce lo vende dall’estero.

 

C’È VERDE E VERDE

Eppure, l’Europa dice che il metano è una fonte “verde”: pulita e sostenibile. Anzi, nella nuova “Tassonomia energetica” appena redatta dalla Commissione di Bruxelles, si afferma ancora di più: e cioè che anche il nucleare è una forma di energia “green”. I sostenitori dell’atomo lo sostengono da sempre, il ministro Cingolani già da qualche mese ha lasciato intendere che la scelta italiana di rinunciare al nucleare nel lontano 1987 è stata pressoché un suicidio. E poi di mezzo ci sono gli anni trascorsi, la tecnologia che è cambiata, con il nucleare di nuova generazione considerato ormai una fonte affidabile e sicura. In Europa ci crede, e molto, la Francia, costellata di reattori. Viceversa la Germania, da un decennio a questa parte, sta facendo sull’onda emotiva dell’incidente di Fukushima ciò che l’Italia aveva fatto all’indomani del disastro di Chernobyl: dire addio all’atomo per paura, senza un vero piano alternativo. E così, il governo presieduto dal neo cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz (sostenuto anche da Verdi e Liberali), si è scagliato pochi giorni fa contro Bruxelles, “rea” di voler sdoganare nemici storici dell’ecologismo militante come atomo e trivelle. Non è rimasto isolato: Lussemburgo, Austria, Spagna e altri si sono uniti alle critiche, ribadendo il loro no al nucleare. Una opposizione alla linea filofrancese della Commissione (e che Roma di fatto sostiene) durata l’arco di poche ore: quelle cioè trascorse prima che Scholz facesse marcia indietro.

 

DENUCLEARIZZATO, CHI?

Il dibattito si è aperto anche in Italia. Movimento 5 Stelle e Partito democratico hanno manifestato tutto il loro scetticismo dinanzi all’idea di un recupero in chiave “green” di fonti energetiche da sempre dipinte come il male assoluto dagli ambientalisti. Forza Italia e Lega, nell’area di governo, hanno invece sposato l’impostazione europea e il leader del Carroccio, Matteo Salvini, ha addirittura ventilato la riproposizione di un quesito referendario che porti all’apertura di nuove centrali nucleari in Italia. Non che non ce ne siano già: da Caorso (Piacenza) a Trino Vercellese, fino a Borgo Sabotino (Latina) i vecchi reattori sono ancora lì a far bella mostra di sé. Il “decommissioning” (smantellamento) va avanti ormai da oltre un trentennio, e a seconda dei casi impiegherà ancora parecchio tempo per essere completato. Per anni, mentre l’elettorato pensava di aver “denuclearizzato” il Paese, l’uranio continuava a occupare le vasche delle centrali, e le scorie a prodursi. Il tutto, però, senza contribuire a rafforzare la produzione energetica italiana. Tuttora, la società pubblica nata per risolvere il problema, Sogin, non è riuscita ad individuare – sull’intero territorio nazionale – un sito adatto allo stoccaggio del materiale radioattivo di scarto radioattivo. Come dire: ci siamo tenuti i problemi, senza sfruttare le opportunità. Abbastanza per suggerire che è giunto il momento di fare un tagliando alle nostre convinzioni, in tema di energia, prima che il conto delle bollette soffochi la ripresa e ogni idea di sviluppo per il nostro Paese.

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