di Alan Patarga
La prima promessa della campagna elettorale l’ha fatta Silvio Berlusconi. Dal quale è lecito aspettarsi, a ridosso del voto del 25 settembre, anche un colpo finale a sorpresa. Il ritorno del centrodestra al governo in solitaria, ha annunciato l’ex premier, porterebbe rapidamente all’innalzamento delle pensioni – tutte – alla cifra minima di mille euro al mese, per tredici mensilità. Un film già visto, e anche per questo credibile: fu il governo Berlusconi, nel 2001, a portare tutti gli assegni a un minimo di un milione di lire al mese. Fatta la conversione tra le due valute, a distanza di 21 anni siamo ancora lì. E’ plausibile che le pensioni – nell’agenda economica del centrodestra – possano rivestire un ruolo importante: non soltanto per la fresca promessa berlusconiana, ma anche perché in tema di previdenza il leader della Lega, Matteo Salvini, ha fatto della demonizzazione della legge Fornero uno dei suoi cavalli di battaglia. Ebbene: il 1° gennaio 2023, salvo interventi dell’ultimo momento (la prossima Legge di bilancio?) la riforma voluta dal governo Monti nel 2011 e poi parzialmente attutita dalla Quota 100 leghista e da altre
misure volte a favorire l’anticipo pensionistico dovrebbe essere applicata in tutta la sua durezza. Nei mesi scorsi si era discusso di una Quota 102, cioè un meccanismo che garantirebbe l’addio anticipato al lavoro in presenza di un mix di età anagrafica e anzianità contributiva che dia come somma, appunto, la cifra 102. Una versione light (per le casse pubbliche) del provvedimento adottato dal governo gialloverde nel 2018.
Anche il Movimento 5 Stelle potrebbe riproporre il tema: a lungo si è dibattuto di quota 41, cioè la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi a prescindere dall’età. Anche la Lega si è mostrata favorevole. Contrario invece il Pd,
che non si oppone alla piena applicazione della Fornero e punta semmai a strumenti di uscita anticipata più di nicchia, sebbene non abbia nella previdenza il cuore del proprio programma economico.
LE TASSE E I SALARI
Non solo pensioni. Lo stesso Berlusconi ha ribadito che l’obiettivo del centrodestra sarà “liberare gli italiani dalle tre oppressioni: fiscale, burocratica e giudiziaria”.
Insomma, c’è da ridurre le tasse. Al momento non ci sono proclami ufficiali, ma è lecito pensare che – fatti salvi gli equilibri di bilancio, ma vale per tutti – presumibilmente l’alleanza composta da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e gruppi centristi minori riproponga l’introduzione della flat tax, la “tassa piatta” uguale per tutti che potenzialmente dovrebbe alleggerire a tal punto il peso del fisco sulle tasche degli italiani da garantire un ritorno in consumi e quindi anche in tasseindirette (come l’Iva).
Se il Pd di Enrico Letta vorrà intestarsi – come prevedibile – la cosiddetta “Agenda Draghi” allora è facile prevedere che il primo punto all’ordine del giorno per i dem sarà invece il taglio del cuneo fiscale: cioè la distanza che c’è tra il netto e il loro
nella busta paga di ogni lavoratore dipendente. Misura chiesta da tempo da Confindustria e non osteggiata dai sindacati, sebbene da parte del Nazareno ci sia l’esigenza di essere al contempo partito di sistema e anche fautore di un programma
“di sinistra” che non dimentichi il sostegno alle classi più deboli. Insomma: Letta e alleati dovranno trovare, come già stava provando a fare l’ex presidente della Bce, un equilibrio tra le richieste confindustriali e quelle della Cgil (e dell’ala orlandiana del partito), che invece chiede a gran voce l’aumento dei salari, misura che per molti dovrebbe coincidere con l’introduzione del salario minimo. I critici fanno presente che in Italia uno strumento del genere ha poco senso: perché abbiamo una delle
contrattazioni collettive più capillari e forti d’Europa e dare cifre al ribasso per chi non è coperto da quegli accordi rischia di innescare una pericolosa catena di disdette. Un monito da non trascurare, ma Pd e anche M5s sembrano convinti che al
salario minimo europeo non si possa sfuggire.
LE BANDIERE GRILLINE
Posto che i 5 Stelle difficilmente potranno in due mesi recuperare centralità politica, il dato veramente chiaro al momento è che le loro bandiere in politica economica potrebbero essere le più a rischio nella prossima legislatura. Il Reddito di cittadinanza, in particolare, potrebbe avere i mesi contati in caso di vittoria del centrodestra. Quei 9 miliardi di costo annuo per le casse dello Stato andrebbero verosimilmente dirottati verso il taglio delle tasse. Più sfumata la posizione del centrosinistra: la misura potrebbe restare, ma con una riduzione degli importi (bye bye 780 euro al mese) e soprattutto con l’introduzione di meccanismi più stringenti per incentivare il ritorno al lavoro dei percettori, anche attraverso un coinvolgimento delle agenzie private.
Quanto al Superbonus 110%, nessuno – a parte lo stesso Draghi – sembra così ostile da volerlo cancellare. La misura, con un quadro di regole chiare e più semplici di quelle che l’hanno accompagnata finora – promette di essere un volano per un
settore importante come l’edilizia. A patto però di ridurre la quota del bonus: già un 80-90% (o 60, come è oggi il bonus facciate?) potrebbe consentire di trovare un equilibrio tra la necessità di rilanciare le costruzioni e l’altra – non meno importante – di scongiurare abusi e sprechi. Una cosa appare certa: rispetto alla legislatura dell’antipolitica, che volge al termine, occorrerà una maggiore attenzione all’equilibrio dei conti pubblici. Le regole europee stanno per tornare in vigore e a seconda di chi vincerà, Bruxelles non farà sconti. A meno che gli equilibri a livello comunitario non cambino davvero.