Il leader e l’influencer. Da un lato “un premier competente e rispettato a livello internazionale” che guida un Paese – malato cronico d’Europa – “certamente migliore di un anno fa”. Dall’altro “l’uomo che aspira a salvare il Pianeta e a darcene un altro dove potremo abitare: clown, genio, bastian contrario, visionario, industriale, showman: un folle ibrido di Thomas Edison, P.T. Barnum, Andrew Carnegie e il Doctor Manhattan di ‘Watchmen’”. Nella guerra delle copertine di fine anno, l’Economist e il Time – due tra i magazine più autorevoli del pianeta – non avrebbero potuto fare scelte più opposte.
PERCHÈ DRAGHI
Il settimanale britannico ha deciso di puntare sull’Italia di Mario Draghi, “Paese del 2021”, grazie a un mix inedito per la nostra storia recente: campagna vaccinale da record (siamo ormai intorno al 90% di immunizzati, e questo – dicono ora gli esperti – ci dà quantomeno un paio di settimane di vantaggio sugli altri Paesi europei nella gestione della nuova ondata di Covid); crescita economica superiore a quella delle tradizionali locomotive d’Europa, in particolare la Germania; una classe politica che, per una volta, riesce a mettere da parte le differenze e a remare quasi tutta nella stessa direzione (non senza qualche inevitabile mugugno e distinguo). Tutto questo, l’Economist non lo dice esplicitamente ma lo lascia intendere, dopo il disastro del 2020, quando il nostro Paese divenne il focolaio-simbolo del mondo occidentale (e che si trattò soltanto malasorte, e non anche di sottovalutazione dei rischi, è tuttora oggetto di approfondimento). Un Paese, va ricordato, che per settimane attendeva le 22 e talvolta anche le 2 del mattino per conoscere le nuove regole di comportamento scelte dal governo. Giuseppe Conte scelse la linea del lockdown totale – linea di prudenza, senza dubbio – non soltanto per la vita nelle città, ma anche per il mondo produttivo. Ne risultò il peggior calo del Pil a livello mondiale, per l’Italia, seguito ora da un rimbalzo altrettanto record ma non abbastanza da pareggiare subito i conti con quell’annata nera. Ma decise anche di affidare la macchina della lotta alla pandemia a Domenico Arcuri, che un anno fa discettava di primule di plexiglass sparpagliate nelle piazze italiane “per dare speranza”, dopo aver dato (cattiva) prova di sé con gli ormai famigerati e costosissimi banchi a rotelle. Il contrario della poca forma e tanta sostanza del generale Francesco Paolo Figliuolo, che in un anno – sfruttando i luoghi che già si prestavano allo scopo, non è a caso è il capo della logistica dell’Esercito – ha vaccinato tutti quelli che lo desideravano, e senza dubbio anche un po’ di più (per effetto delle restrizioni contemporaneamente imposte dall’esecutivo). Certo, l’attuale leader pentastellato strappò all’Ue l’assegno più cospicuo per la ripresa, quella quota da quasi 200 miliardi del Recovery Fund che consente ora al nostro Paese di progettare il futuro. Ma il suo Piano nazionale di ripresa e resilienza erano poche e vaghe paginette, mentre quello elaborato dal governo Draghi è un tomo che ha passato indenne il giudizio arcigno di Bruxelles. E la “mission impossible” di centrare 51 obiettivi (perlopiù riforme) entro fine 2021 è sostanzialmente riuscita, cosa che ci garantirà – dopo l’anticipo di agosto – una nuova tranche di fondi da oltre 20 miliardi già a inizio 2022. Il resto, quello per cui un’altra rivista (L’Equipe) ci ha premiati, è solo piacevole contorno: i trionfi nel calcio e alle Olimpiadi, e i successi musicali dall’Eurofestival a Las Vegas.
PERCHÈ MUSK
Molto più americana la scelta di Time Magazine. Elon Musk è senza dubbio un’icona. Ma tanto a lui quanto al suo antagonista Jeff Bezos, patron di Amazon e Blue Origin, sembra mancare qualcosa per essere gli ispiratori di una generazione. Si contendono a intervalli regolari la palma di “uomo più ricco del mondo”, hanno in comune l’interesse per i viaggi spaziali, ma difettano del carisma di Steve Jobs, che pure per due volte mancò l’appuntamento con la copertina dell’anno. Nel 1982, l’editorial board di Time gli preferì la sua creatura: il personal computer. Nel 2011, subito dopo la sua scomparsa, la cover che pure era attesa per lui fu invece dedicata alla figura del “Protester”, del manifestante: eravamo nell’anno di “Occupy Wall Street”, una delle proteste più velleitarie e dimenticabili della storia umana. Due indizi che fanno una prova con il terzo: in lizza con Musk, e risultati perdenti, c’erano “gli eroi del vaccino”, cioè gli scienziati che in pochi mesi sono stati in grado di dare una risposta scientifica alla pandemia da Covid-19. Difficile asserire – checché se ne pensi dei vaccini stessi – che non abbiano cambiato le nostre vite più del fondatore di Tesla. Ma tant’è. Il punto, semmai, è andare a guardare cosa effettivamente abbia combinato Musk in questi anni. Non poco, ma neppure tantissimo. Innanzitutto ha fondato una casa automobilistica che controlla due terzi del mercato (per ora piccolo, ma sicuramente destinato a diventare centrale) dei veicoli elettrici. Ha fatto più soldi di tutti, mentre moltissimi ne perdevano, e addirittura più del suo rivale che ha potuto approfittare dei lockdown che hanno portato anche i più riottosi a preferire gli acquisti online a quelli “fisici”. Ha vinto la corsa privata allo spazio con la sua SpaceX, sempre contro Bezos, riuscendo peraltro a siglare un contratto con la Nasa che ha per oggetto il ritorno dell’uomo sulla Luna per la prima volta dal 1972.
LUCI E OMBRE
Ma non è oro tutto quel che luccica. A fronte di una capitalizzazione record (quasi 950 miliardi di dollari), che ne fa un gigante a Wall Street, Tesla è ancora un nano nell’industria automobilistica mondiale. Ha venduto circa 200 mila vetture nell’ultimo anno, segnando un ragguardevole record in Europa a settembre, quando il Model 3 è risultato il veicolo più acquistato a livello continentale, ma potrebbe trattarsi di un fuoco di paglia. Soprattutto perché Musk sta sfruttando una giusta intuizione (il futuro è l’elettrico), corroborata dall’ansia ambientalista dei governi occidentali, e lo sta facendo sfruttando il ritardo dei concorrenti. Ma ora che la direzione è chiara a tutti, il margine inevitabilmente si restringerà: Volkswagen, Toyota, General Motors, Stellantis e altri stanno prendendo le loro contromisure. E hanno mezzi e capacità per mettere fuori mercato – o spingerlo in una nicchia – il magnate sudafricano. Il quale guadagna tanto pur producendo poco, anche perché riesce a sembrare più determinante di quel che è per le sorti dell’economia americana e globale. Basta un suo tweet per far oscillare paurosamente le quotazioni delle criptovalute, o per impensierire gli investori. La strategia social di Elon Musk è però una foglia di fico per le sue carenze industriali e finanziarie: quando circa un mese fa ha indetto un referendum tra i suoi follower per chiedere loro se dovesse vendere o no una parte delle sue azioni, si è scoperto che in realtà la decisione era già presa da tempo, e che più che una scelta si trattava di un obbligo fiscale concordato con la Sec, la Security Exchange Commission statunitense, l’equivalente della nostra Consob. Un bluff digitale, insomma.
E se dunque è questa la parabola dell’influencer Musk, non è scevra di ombre neppure quella del leader Draghi. Nonostante i numeri record delle vaccinazioni, i contagi sono in risalita e uno zoccolo duro di riottosi non ha ceduto alle pressioni del governo per immunizzarsi. La ripresa del Pil è forte, ma proprio ieri Bankitalia segnalava come nel 2022 la crescita sarà meno forte del previsto (+4%, da una precedente stima del +4,4%) perché la ripresa del Covid e le strozzature nei rifornimenti stanno frenando l’attività produttiva. L’inflazione morde e gli effetti del carovita si vedranno sempre più, soprattutto a partire dalla primavera. Più di tutti, sul cammino di Draghi, c’è però una pietra d’inciampo: si chiama Quirinale. E rischia di trasformare un indiscusso leader in un soprammobile di pregio.