di Alan Patarga
Se a distanza di 11 anni siamo ancora a parlare di spread, vuol dire che qualcosa – anzi, più di qualcosa – in Italia non va.
Lo spread, letteralmente il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato decennali italiani, i Btp, e i Bund tedeschi di pari durata è di fatto un termometro dell’affidabilità di un Paese: presa come pietra d’angolo una nazione di sicuro credito politico-economico come la Germania, si misura quanto un’altra si distanzi da quel modello. Per l’Italia una prova da sempre dolorosa, perché i mali della nostra economia sono molti, e sostanzialmente sempre gli stessi se nel 2022 ci troviamo a dover fare i conti con questo valore come accadde nell’estate del 2011. Allora il male endemico del Paese era la corsa della spesa corrente, e con essa del debito pubblico: la cifra assoluta era ben oltre gli 1.800 miliardi di euro, quella del rapporto con la produzione di ricchezza del sistema Italia (Pil) poco sotto il 120%. Oggi l’indebitamento italiano supera i 2.700 miliardi, mentre il rapporto debito-Pil ha sfondato la soglia del 150%.
ERA MEGLIO QUANDO C’ERA SILVIO
Stiamo peggio di ieri, quando a governare c’era Silvio Berlusconi e la speculazione finanziaria si accanì contro il nostro Paese fino alla defenestrazione dell’allora premier, oggi leader di Forza Italia. In questi anni, molti governi si sono avvicendati alla guida del Paese: da quello dell’ex commissario Ue Mario Monti, a quelli a guida dem di Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, fino ai due esperimenti giallo-verde e giallo-rosso condotti da Giuseppe Conte. Da quasi un anno e mezzo siede invece a Palazzo Chigi quel Mario Draghi che, da presidente della Bce, riuscì a placare i mercati, salvando l’euro e il nostro Paese, garantendo che la banca centrale avrebbe fatto di tutto (letteralmente: “whatever it takes”) per scongiurare il tracollo della moneta comune e, con essa, dell’intera costruzione europea. Funzionò per l’autorevolezza e la credibilità di Draghi, ma anche per la concretezza dei mezzi che il già governatore di Bankitalia mise in campo. Quello che i cronisti (finanziari e no) ribattezzarono “bazooka” altro non era che un programma di acquisto titoli di Stato con il quale la Bce di fatto garantiva che qualsiasi emissione di debito di un Paese dell’Eurozona non sarebbe rimasta invenduta. L’Italia, insomma, sarebbe sempre e comunque riuscita a finanziarsi e sopravvivere. E con essa, gli altri Paesi ad alto debito – come la Grecia – in condizioni analoghe. La Banca centrale europea insomma si impegnò a comprare tempo al nostro Paese. Drogando il mercato? Sicuramente. Garantendone la stabilità (Roma era, e resta, “too big to fail”)? Anche. Se però i numeri del bilancio pubblico dicono che tutto è cambiato perché nulla cambiasse, la politica italiana e anche chi spesso l’ha commissariata dovrebbero fare un mea culpa: quel tempo è stato sprecato e ora la realtà torna a bussare alla nostra porta.
LO SCUDO E IL DEBITO
Nei giorni scorsi, il rendimento dei Btp a 10 anni è arrivato a superare, sia pure di poco, la soglia del 4%. Un anno fa non si arrivava al punto percentuale. I manuali di economia dicono che a quota 7% un debito pubblico non è più sostenibile: faremmo troppa fatica a ripagarlo, data la cifra astronomica di interessi da corrispondere, e sarebbe dunque default.
Non ci arriveremo, ma che qualcosa vada fatto è perfino banale dirlo. Solo che le condizioni di oggi, dopo la pandemia (sarà davvero finita?) e con una guerra in corso e ciò che ne consegue in termini di caro energia e inflazione, sono terribilmente di quelle – mal sfruttate – di ieri. Allora avevamo tassi sottozero, un percorso di ripresa che altri hanno imboccato per tempo mentre noi galleggiavamo sugli zerovirgola e da un anno a questa parte c’è anche l’opportunità del Pnrr, cioè dei soldi europei (parte in prestito, parte a fondo perduto) che dovrebbero servire a svecchiare e rendere competitivo il nostro Paese. Così, consapevoli di non essere stati in grado quando era facile, torniamo a guardare altrove nella speranza che un deus ex machina ci tragga – ancora una volta – d’impaccio. Negli ultimi giorni, la Bce ha parzialmente corretto la rotta: dopo aver inutilmente alzato i tassi per combattere un’inflazione creata da prezzi imposti dall’estero (quelli del gas e delle materie prime) e aver terminato il programma di acquisto di bond che ci ha a lungo consentito di respirare, l’istituto di Francoforte ha annunciato il varo a breve di uno “scudo anti spread” per tutelare chi, come noi, non ha fatto i compiti a casa. La mossa era necessaria, se non altro per scongiurare danni ulteriori a un’economia europea che la guerra in Ucraina e le sanzioni alla Russia stanno mettendo a dura prova. Però la reazione dei mercati e della politica sono state negative: le Borse hanno continuato a scendere, nonostante le rassicurazioni provenienti dall’Eurotower. E soprattutto i cosiddetti “frugali”, cioè i Paesi europei capaci di tenere i conti in ordine, se la sono presa con la presidente della Bce, Christine Lagarde, accusandola di aver travalicato i limiti del proprio mandato.
Il ministro austriaco delle Finanze, Magnus Brunner, è stato di fatto il portavoce del malcontento: “L’Italia e la Grecia, più che a nuovi aiuti, pensino a ridurre il debito”. Brutale, ma qualcuno doveva pur dirlo.