Ci sono due dati che, a dispetto del Pil volato nel 2021 sopra la soglia record del 6%, evidenziano che la crisi c’è ancora e che per uscirne davvero bisognerà stringere i denti. Il primo: tornano a correre le sofferenze bancarie. Come segnalato dall’ultimo bollettino dell’Abi, dallo scorso settembre – dopo 5 anni consecutivi di calo – la quota di crediti deteriorati nella pancia degli istituti italiani è salita dal minimo storico di 15,3 miliardi di euro ai 17,6 di novembre. Certo, sono lontanissimi i picchi di fine 2016, quando la cifra complessiva oscillava intorno agli 85 miliardi di euro, ma la ripresa improvvisa dei mancati pagamenti segnala un problema anche per la rapidità del fenomeno: il ritmo è di circa un miliardo al mese. Segno che famiglie e imprese faticano a ripagare quanto dovuto, e questo nonostante il perdurare (fino allo scorso 31 dicembre, almeno) delle moratorie sui prestiti che – a motivo del Covid – sono state concesse per dare fiato a chi era in seria difficoltà perché con l’attività chiusa, o in cassa integrazione, o del tutto senza lavoro.
L’altro dato preoccupante lo ha rivelato il quotidiano ItaliaOggi e riguarda le cartelle esattoriali. Secondo una prima stima effettuata dai commercialisti italiani, addirittura il 60% degli avvisi di pagamento in scadenza al 31 dicembre scorso non sono stati onorati. Il mancato versamento di quanto dovuto al Fisco, calcolano gli esperti, costituisce per lo Stato un ammanco di cassa superiore al costo in sé della mancata (e a più riprese invocata) proroga della rottamazione, terminata appunto a fine 2021. Non solo: con l’avvio del nuovo anno, sono scadute le regole emergenziali che allungavano fino a un massimo di 10 rate non pagate il limite per la decadenza dal beneficio della rateizzazione, soglia che ora è scesa a 5 rate non pagate, anche non consecutive. Unica buona notizia, per i contribuenti, il differimento dell’efficacia delle nuove cartelle emessa dal primo gennaio, esteso a 180 giorni grazie al pressing di Forza Italia e Lega in Consiglio dei ministri.
Certo, il governo Draghi ha varato una riforma dell’Irpef che riduce da 5 a 4 le aliquote, modificando gli scaglioni di reddito nel tentativo di limare al ribasso la pressione fiscale italiana, che rimane però tra le più elevate al mondo. Nel 2020, ultimo dato ufficiale a consuntivo ora disponibile, era arrivata al 42,8%, quelli provvisori segnalavano una progressione al rialzo fino al terzo trimestre 2021. Si paga di più, si riceve inevitabilmente meno perché negli ultimi due anni il grosso delle risorse è stato assorbito dall’emergenza Covid, com’era comprensibile, a discapito però di altri servizi (basti pensare alla situazione degli ospedali e alle difficoltà di cura per chi contrae altre patologie, o allo smart working che ha di fatto ridotto l’accessibilità per gli utenti agli uffici pubblici).
RIECCO IL SOLVE ET REPETE
In tutto questo, il Fisco si muove – in parte anche autonomamente dalla politica – come se il mondo fosse tornato a girare regolarmente. Anzi, più veloce di prima. Basta guardare a quanto stabilito dall’articolo 3 bis del Dl 146/2021, il cosiddetto “Decreto fiscale” varato a ottobre e convertito in legge dal Parlamento il mese scorso. Ebbene: la norma prevede forti limitazioni, se non vere e proprie esclusioni, per l’impugnativa del ruolo e della cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata. Per esempio, se la vostra azienda riceve un’ingiunzione di pagamento e i termini di notifica non risultano corretti, non potrete fare ricorso se non a pena di venire esclusi – per esempio – dalla possibilità di partecipare a una gara d’appalto. L’unica soluzione è pagare prima e, una volta formalmente in regola con il Fisco, fare ricorso. Come sottolineato nei giorni scorsi dal quotidiano ItaliaOggi, è di fatto un ritorno nel nostro ordinamento della cosiddetta clausola “solve et repete”, in soldoni: prima paghi, poi ti lamenti. Peccato che una sentenza della Consulta abbia già stabilito l’illegittimità di quella norma, per contrasto agli articoli 3, 24 e 113 della Costituzione. Correva l’anno 1961. L’Italia cresceva al ritmo dell’8%, un po’ meglio di oggi. Ma le similitudini finiscono qui.