di Alan Patarga
Dice il premier Mario Draghi che noi italiani dobbiamo scegliere tra un’estate alleviata dal fresco di un condizionatore acceso e la pace in Ucraina (e anche in casa nostra, che non si sa mai). Perché tenere l’aria condizionata a tutta birra, o similmente il riscaldamento in inverno, allo stato attuale significa consumare gas, che l’Italia compra dalla Russia di Vladimir Putin, il quale usa i miliardi incassati con il metano per finanziare la guerra contro Kiev. Discorso lineare, per dire una cosa semplice: che solo un embargo europeo al gas di Mosca può ragionevolmente mettere in ginocchio il capo del Cremlino una volta per tutte, ma anche che – qualora lo attuassimo veramente – l’Ue e l’Italia al momento non hanno un serio piano B per garantire a famiglie, imprese e servizi di pubblica utilità gli approvvigionamenti necessari a continuare le loro attività come nulla fosse.
“QUOTA 30” È LONTANA
Nelle ultime settimane, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, accompagnato dal potente amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, ha intrapreso un tour diplomatico nelle capitali del gas, per indurre i partner commerciali del nostro Paese ad incrementare le loro forniture verso l’Italia – chi attraverso i gasdotti, ove presenti, chi con l’invio di navi cariche di Gnl (gas naturale liquefatto). I numeri dicono che la missione è riuscita a metà: a conti fatti, il titolare della Farnesina è riuscito a strappare una quindicina di miliardi di metri cubi di gas in più all’anno, cifra ragguardevole ma che non basta a coprire un sempre più probabile ammanco di 30 miliardi di metri cubi di metano russo. Serve uno sforzo ulteriore, e infatti il premier Draghi in persona – lunedì prossimo – volerà ad Algeri per un raddoppio negoziale con uno dei nostri più importanti (e vicini) fornitori. Ma allo stato attuale, pur sommando le forniture extra, la volontà di incrementare l’attività estrattiva in Italia(annullata però nei fatti dalle regole restrittive del nuovo Pitesai, il piano regolatore di settore) e l’intenzione di aumentare il numero dei rigassificatori lungo la Penisola (ma a Piombino già alzano le barricate contro il possibile quarto impianto: una nave riattata da Snam), la verità è che rischiamo di non avere materia prima a sufficienza per scaldarci il prossimo inverno e forse, appunto, anche per raffrescarci in estate. Colpa di una serie di errori strategici del passato: l’eccessiva dipendenza dal gas nella composizione del mix energetico nazionale, accompagnata dall’ostilità diffusa verso le trivelle che servono a estrarlo, con il risultato di andarcelo a comprare all’estero (leggi: Russia); il no al nucleare, perfino il più “pulito”; la lentezza nello sviluppo delle rinnovabili. Responsabilità, tutte, di una politica incapace di avere visione strategica, da decenni.
BAMBOCCIONI, CHOOSY E…
Per questo il dilemma del condizionatore, oltre a essere ingeneroso, è populista e semplicistico. Perché metterci tutti al bivio tra “Pace e Aria condizionata” (Tolstoj, perdonaci), come se volere un po’ di fresco ci sporcasse le mani di sangue, significa alzare per l’ennesima volta l’asticella del senso di colpa di cui noi italiani dovremmo perennemente soffrire: eravamo abituati a sentirci dire che stavamo vivendo una vita al di sopra delle nostro possibilità (il che è vero: il gigantesco debito pubblico del nostro Paese sta lì a testimoniarlo), ora si aggiunge l’accusa che lo stiamo facendo anche al di sotto di ogni standard morale.
La verità è che staccare la spina senza un piano rischia di rivelarsi una mossa azzardata che non avrà ripercussioni soltanto sul termostato di casa, ma sull’intera economia nazionale: senza gas a sufficienza, a risentirne saranno – con razionamenti e fermi programmati, si presume – le attività produttive italiane. Il circolo vizioso che ne discenderà non è difficile da immaginare: meno produzione, meno vendite, più ammortizzatori sociali (quindi più costi per la collettività, come dire: scostamento di bilancio oggi o cassa integrazione domani, poco cambia), e alla fine più disoccupazione, calo dei consumi e quindi del Pil. Una spirale recessiva difficile da evitare, sebbene c’è da augurarsi che un premier competente come Draghi abbia la formula anche stavolta per scongiurarla.
Ma la battuta sull’aria condizionata non fa ben sperare. E’ già successo, che i tecnici cedessero al populismo, coniando epiteti poco felici per gli italiani, spesso i più giovani, poco propensi a ingollare il sacrificio del giorno. Il prof. Luigi Curini, ordinario di Scienze politiche alla Statale di Milano, scriveva così un anno fa sul quotidiano “Italia Oggi”: “Cos’hanno in comune, di complementare, la tecnocrazia e i ‘cattivi’ populisti (al di là delle scontate differenze)? Recuperano qua l’argomentazione avanzata dagli studiosi Christopher Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti qualche anno fa, ecco la risposta: il loro condiviso rifiuto di quello che possiamo definire come la ‘democrazia di partito’, ovvero quella che noi viviamo ogni giorno, almeno in tempi normali. (…) In entrambi i casi si dà per scontato di questo oggettivo e non ambiguo ‘interesse generale’ che, una volta scoperto, deve essere implementato contro ogni possibile opposizione”. E così i giovani che non trovano lavoro diventano via via “bamboccioni” (copyright Tomaso Padoa-Schioppa), “choosy” (Elsa Fornero), “sfigati” (Michel Martone), “pistola” (Giuliano Poletti). Parole pronunciate tutte da persone degne e preparate, che a un certo punto della loro carriera hanno però sentito il bisogno di delegittimare – salendo su un piedistallo – una quota di italiani di cui volevano in qualche modo stigmatizzare lo stile di vita. Giusto o sbagliato nella sostanza, sicuramente sbagliato nella forma. Stavolta Draghi se la prende con chi vorrebbe il fresco d’estate, ma attenzione: l’ex presidente della Bce è romano. E sul dizionario c’è una voce che recita così: “Alterazione eufemistica del romanesco ‘fregnone’; sciocco, babbeo”. La voce è “frescone”.