di Alan Patarga
Qualcuno dica ad Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea, che lei e Silvio Berlusconi militano nella stessa formazione, il Partito Popolare europeo, e che il suo leader e connazionale Manfred Weber è perfino venuto in Italia – qualche settimana fa – a fare campagna per il Cavaliere. Perché, al netto della smentita tardiva e che non smentisce (“penso sia assolutamente chiaro che la presidente non è intervenuta nelle elezioni italiane quando ha parlato di strumenti e ha fatto riferimento a procedure in corso in altri Paesi”), il senso di quello che la baronessa madre di sette figli aveva detto all’Università di Princeton, negli Stati Uniti, non parrebbe equivocabile: “Noi lavoreremo con qualsiasi governo democratico che vorrà lavorare con noi – le sue parole – ma se le cose dovessero andare per il verso sbagliato, abbiamo gli strumenti”. Quali? Presto detto: “Ho parlato per esempio di Polonia e Ungheria”, due Paesi cioè “puniti” da Bruxelles con il congelamento dei fondi del Pnrr e, nel caso di Budapest, anche del bilancio Ue. Un messaggio certo poco amichevole, considerato che con gli oltre 191 miliardi richiesti tra prestiti da ripagare e soldi a fondo perduto l’Italia è il Paese cui spetta la fetta più grossa della torta del Recovery, cioè il fondo Next Generation Eu.
E C’E’ ANCHE LA BCE
Von der Leyen non ha fatto esplicito riferimento al centrodestra, dai sondaggi indicato come probabilissimo trionfatore del voto di domenica prossima, che potrebbe fare di Giorgia Meloni la prima donna a presiedere il Consiglio dei ministri nella storia d’Italia. Ma il riferimento a due Paesi a guida ultraconservatrice, come Polonia e Ungheria, consente di interpretare le parole della numero uno della Commissione oltre ogni ragionevole dubbio. L’entrata a gamba tesa nell’agone elettorale italiano – a poche ore dal silenzio elettorale – ha chiaramente sollevato polemiche e portato gli europarlamentari della Lega a presentare un’interrogazione a Strasburgo. Politicamente grave, l’uscita è però soprattutto l’ammissione che nell’Unione europea – cui i Paesi aderenti sono tenuti a devolvere consistenti fondi al bilancio comunitario – è possibile che ragioni di opportunità politica interna portino a modificare il ciclo economico di intere nazioni. Lo sapevamo già? Forse sì, ma finora ai piani alti dell’Unione ci si era limitati ad alzate di spalle, sorrisini ammiccanti (mai dimenticare Cannes 2011), allusioni. Nelle ultime settimane, qualcosa da questo punto di vista è cambiato: verso capitali come Varsavia e Budapest, con azioni ritorsive, e ora addirittura con ammonimenti preventivi rivolti ai leader politici e agli elettorati di un Paese che si appresta al voto. Come non bastasse, un’altra donna – anche lei tedesca – nelle scorse ore ha rivolto le sue attenzioni al nostro Paese. Isabel Schnabel, componente del comitato esecutivo della Bce, due giorni fa ha risposto a una domanda sull’Italia e il suo debito nel corso di un’intervista alla testata tedesca T-online: “La sostenibilità del debito pubblico – ha spiegato – dipende in modo cruciale dalla crescita economica”. E fin qui ci siamo. Poi però ha avvertito la necessità di andare oltre: questa crescita, ha fatto capire, dipende in larga parte dagli effetti dei fondi Next Generation, “ed è molto importante che i progetti finanziati attraverso il programma di salvataggio europeo siano perseguiti con coerenza e implementati integralmente”. Integralmente che suona molto come “senza modifiche”, quelle che i leader del centrodestra hanno lasciato intendere – con toni diversi fra loro – che potrebbero essere necessarie, per adattare un programma pensato per rispondere all’emergenza Covid e che ora dovrebbe servire anche a uscire da quella energetica.
Qualora il messaggio non fosse chiaro, ci sono le grandi agenzie di stampa e finanziarie a decifrarlo. “Il regalo di benvenuto dell’Italia a Meloni sarà una prospettiva economica peggiore”, titolava nelle scorse ore Bloomberg nella sua edizione europea, ricordando l’imminente arrivo di una serie di scadenze non proprio semplici per il nostro Paese: la revisione delle stime di crescita da inserire nella Nadef (Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza), il prossimo giudizio dell’agenzia di rating Moody’s e una serie di aste di titoli di Stato da togliere il sonno, per un totale di 95,3 miliardi di euro nel 2022 e 339,8 nel 2023. Come dire: gli strumenti ci sono. Sappiamo come usarli, perché l’abbiamo già fatto.