di Alan Patarga
La verità è che non siamo abituati a soffrire. Anzi, all’idea stessa della sofferenza. Perché diciamo le cose come stanno: i guai non sono ancora cominciati, al di là di tariffe alle stelle e difficoltà di privati e aziende a onorare bollette sempre più salate. Però dalla Russia il gas continua a fluire placido verso le nostre case e le nostre imprese, al punto di Tarvisio è come se la guerra in Ucraina non fosse mai scoppiata e insomma… il peggio deve ancora venire. Verrà? Dipende da noi e dalla nostra scala di valori.
KIEV COME DANZICA
Si può, legittimamente, tenere duro e sostenere che quella a Kiev è un’aggressione imperdonabile, che gli ucraini sono fratelli europei e che se li molliamo l’ingordigia della zar Putin crescerà a dismisura e dal Cremlino si comincerà a occhieggiare verso la Moldavia, la Finlandia e chissà fino a dove. Si può, insomma, proseguire sulla strada delle sanzioni preparandoci per quanto possibile ad attutire il colpo, perché poi il colpo sul piano economico e produttivo inevitabilmente ci sarà.
Oppure, venendo a patto con noi stessi, potremmo decidere di voltarci dall’altra parte. Abbandonare l’Ucraina al suo destino, decidere che no, non vale la pena rischiare uno o più inverni al freddo e una crisi energetica che rischia di far impallidire la caduta del Pil dovuta all’esplosione della pandemia nel 2020. Il metano non mancherebbe, ma sanciremmo una volta di più e una volta per tutte – probabilmente – che senza Mosca non possiamo vivere. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale c’era chi si domandava se fosse il caso di morire per Danzica, la città portuale polacca rivendicata dalla Germania nazista. Siamo davanti a un identico crocevia della storia, il dilemma morale è il medesimo, la nostra tenuta psicologica presumibilmente no.
L’EUROPA TENTENNA
I segnali che arrivano da più parti dicono che, a distanza di appena due mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, il fronte di chi non se la sente stia crescendo giorno dopo giorno. Nel corso della settimana, l’agenzia Bloomberg e poi il Financial Times hanno rivelato che alcuni Paesi europei, e alcune loro aziende – quegli stessi Paesi che sulla carta hanno avallato le sanzioni alla Russia – avrebbero acconsentito alla richiesta del Cremlino di pagare i rubli le forniture di gas naturale. Sono emersi i nomi di Germania, Austria, Slovacchia, Ungheria. Le smentite sono fioccate, anche prima che trapelassero i nomi (Vienna, per dire, prima ancora di essere citata già bollava l’indiscrezione come “fake news”), salvo Budapest, che attraverso il proprio ministro degli Esteri ha fatto sapere di non trovare nulla di male nel saldare i conti in valuta russa, dal momento che garantire la continuità delle forniture energetiche “è questione di sicurezza nazionale”.
BERLINO ANELLO DEBOLE
Segnali contraddittori sono arrivati anche da Bruxelles, dove per alcune ore la Commissione Ue è sembrata tentennante sul punto. Forse perché nell’esecutivo comunitario c’è la consapevolezza che tra i Paesi membri, anche tra quelli che le sanzioni non intendono violarle platealmente, stia montando il panico. Berlino pare essere l’anello debole della catena europea, anche al di là dei colpi bassi che si stanno susseguendo nella politica tedesca, dove lo scambio di accuse di subalternità alla Russia tra Cdu e Spd è ormai all’ordine del giorno. C’è chi porta a sostegno gli anni di politiche accomodanti verso il Cremlino che hanno caratterizzato il lungo governo di Angela Merkel. Chi, viceversa, cita i ruoli tuttora rivestiti in aziende energetiche partecipate dal governo russo dall’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder.
IL CASO MARCHE
Anche in Italia l’insofferenza pare montare rapidamente. Alla fiera delle calzature, in Russia, nei giorni scorsi si sono presentati i produttori delle Marche – uno dei distretti italiani più importante per il settore – accompagnati addirittura dal vicepresidente della Regione. “Non potevamo perdere un’occasione come questa, dopo anni di investimenti e una fetta di mercato conquistata con fatica e sacrificio”, hanno detto più o meno tutti ai giornalisti che li hanno interpellati. Come dire: l’alternativa era chiudere e lasciare a casa il personale. Su qualche testata si è perfino ventilata l’ipotesi che anche l’Eni stesse meditando di cedere al ricatto del rublo, salvo ricevere una sonora smentita. Eppure, dicevamo, praticamente non è ancora successo nulla o quasi. Siamo, di fatto, alla fase delle minacce: ma è evidente che a ottobre, quando il freddo tornerà e con esso la necessità di scaldarsi, non saremo in nessun caso pronti.
BOLLETTE PIU’ SALATE
Il governo ha annunciato per lunedì un nuovo pacchetto di misure. Più trivellazioni, deroga al carbone, semplificazioni normative per le rinnovabili e accelerazione per i rigassificatori. Ma su un punto gli esperti concordano tutti: nella migliore delle ipotesi, tutti questi accorgimenti saranno pronti all’uso in 18-24-36 mesi a seconda dei casi. Insomma: scordiamoci di avere un piano B per l’inverno 2022-2023. L’unica cosa da fare è riempire a rotta di collo gli stoccaggi, ma farlo ora senza attendere un (impossibile) calo dei prezzi, significa non avere margini di manovra sui rincari dei prossimi mesi. Pagheremo, cioè, bollette ancora più salate. A patto di avere materia prima a sufficienza da pagare.