di Alan Patarga
Come gli àuguri romani, ci tocca interpretare il futuro dal volo degli uccelli. Quelli che volteggiano da qualche giorno sui cieli italiani sono senza dubbio avvoltoi, pronti a picchiare sulla carcassa della nostra democrazia. I segnali ci sono tutti: in parte fanno riferimento al mal comune europeo, una crisi energetica che non potrà non aggravarsi con l’avvio della stagione fredda; in parte, però, sono cosa solo nostrana, e riguardano la tenuta del debito pubblico.
LA (NON) CURA DEL DEBITO
Un anno e mezzo di governo Draghi non ha portato l’austerità nei conti pubblici, tutt’altro: a febbraio 2021 Bankitalia comunicava che il nostro debito era a quota 2.637 miliardi di euro, oggi siamo a un passo dai 2.800. Certo, sono stati diciotto mesi straordinari (ma quali non li sono stati, negli ultimi decenni?): prima la pandemia, con una campagna vaccinale da organizzare, ristori e sostegni da erogare, tasse (poche) da tagliare; poi l’inflazione e il caro-energia, con sgravi da varare, accise e oneri di sistema da alleggerire. Margini per essere virtuosi? Prossimi allo zero. Si poteva (e non si è fatto) varare un piano senza precedenti di taglio della spesa pubblica, insomma distinguere tra “debito buono” e “debito cattivo”, come lo stesso Draghi li aveva ribattezzati in un precedente intervento al Meeting di Rimini. Non si è fatto, perché la cronaca ha preso il sopravvento sulla storia, e l’esigenza di rispettare i tempi del Pnrr per ottenere i fondi europei così come quella di sedare i continui mal di pancia all’interno della maggioranza di unità nazionale hanno finito per mettere in secondo piano l’urgenza di mettere la testa sul debito. Mancava, in effetti, il pungolo dell’Europa, suonata a sua volta da questo biennio (e quasi triennio, ormai) da incubo: senza il richiamo alle regole di bilancio, messe in soffitta per tutti e perfino per noi, si è preferito dedicare l’attenzione ad altre urgenze.
LA SCOMMESSA CONTRO L’ITALIA
Ma a interrompere il lungo sonno ci stanno pensando la stampa internazionale e gli hedge fund, i grandi fondi speculativi (statunitensi, ma non solo), che come una decina di anni fa hanno rimesso l’Italia nel mirino. Il Financial Times fa sapere che un gruppo di questi fondi avrebbe preso “a prestito” obbligazioni italiane per un valore superiore ai 39 miliardi di euro, puntando su un ribasso dei prezzi. Un movimento di risorse suffragato dai dati in possesso di S&P Global Market Intelligence. La tesi riportata da FT è che la speculazione avrebbe deciso di “shortare” l’Italia per due ragioni: le prossime elezioni politiche del 25 settembre, con un prevedibile arrivo a Palazzo Chigi del centrodestra e di Giorgia Meloni nella veste di premier, e l’ancora forte dipendenza dal gas russo (sebbene l’esecutivo sia riuscito rapidamente a ridurla dal 40 al 25% circa) che in Europa ha confronti soltanto con la Germania (che però ha un debito di ferro). Nota tecnica: “shortare”, nel linguaggio dei mercati, significa vendere titoli di Stato italiani (principalmente Btp) che non si possiedono, ma si sono presi in prestito, prevedendo che i prezzi scenderanno, per incassare la differenza. Una scommessa sul tracollo italiano, insomma. Dinanzi a questa prospettiva, la politica può poco: Draghi dice che qualunque governo verrà, a prescindere dal colore politico, sarà in grado di salvare il Paese; Giorgia Meloni, alla Reuters, promette che nessun atto di governo sarà privo delle opportune coperture finanziarie e che insomma i conti pubblici non saranno mai a rischio. Ma sono rassicurazioni che valgono fino a un certo punto: nell’estate del 2011, nemmeno due manovre d’emergenza, provvedimenti straordinari di risanamento delle finanze dello Stato e l’annuncio dell’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione – a opera di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti – impedirono alla speculazione di fare il suo corso, fino ai 575 punti base di spread tra Btp e Bund che si toccarono all’inizio di novembre, determinando la caduta dell’ultimo governo di centrodestra.
IL NODO DI AMSTERDAM
Come non bastasse, all’eterno problema del debito si aggiunge ora l’esigenza continua di sforare i conti per erogare risorse che dovrebbero garantire la tenuta del sistema Paese. Sia per quanto riguarda la capacità produttiva, sia per la tenuta sociale sempre più a rischio. Le bollette alle stelle di queste settimane – dati Confcommercio: +1.103% il gas, +917% l’elettricità rispetto alla media tra il 2016 e il 2020 – pongono seriamente una serie di questioni: possono le aziende continuare a produrre come nulla fosse? E ammesso lo facciano, avranno energia a sufficienza per non dover rallentare la produzione? E ancora: quanto dovranno essere i ritoccati i prezzi per incamerare i rincari energetici? Sul lato famiglie: saranno in grado di pagare i bollettini? Quanto taglieranno gli altri consumi, vanificando l’eventuale sforzo produttivo delle imprese? Un circolo vizioso che è determinato da più fattori: il primo in ordine logico, perché è quello scatenante almeno per l’Europa, è la guerra russo-ucraina. La decisione di Mosca di utilizzare il gas come leva politica nei confronti dell’Unione funziona: siamo sotto pressione, sebbene non ci siano segnali di cedimento nel sostegno diplomatico e militare a Kiev. Ma a determinare il rialzo delle quotazioni del metano c’è anche altro. Il gas in Europa è trattato all’hub virtuale di Amsterdam, una vera e propria Borsa che influisce sul prezzo concordato nei contratti di compravendita a livello continentale. Negli ultimi giorni, i prezzi hanno registrato un’impennata senza precedenti, avvicinandosi a quota 320 euro al megawattora, contro una media di 20-25 euro che pagavamo nella primavera del 2021, all’epoca cioè dell’insediamento del governo Draghi. A determinare questa dinamica, secondo molti osservatori e anche a detta di Tremonti che nel prossimo governo potrebbe tornare a vestire i panni di ministro dell’Economia, oltre alle tensioni con la Russia potrebbe aver giocato un ruolo determinante anche la speculazione. Sulla piazza olandese, infatti, si lavora (ovviamente) con futures, e anche con derivati sui prezzi dell’energia. E che qualcuno abbia calcato la mano sulla preoccupazione per un eventuale e imminente taglio delle forniture russe all’Europa (possibile, ma realisticamente difficile a meno che Mosca non voglia veramente andare in default) è un dubbio più che legittimo. Il governo italiano – scrivono i giornali – pensa alle contromisure: possibile un decreto ulteriore per calmierare le bollette. Ma soprattutto lavora sul fronte dell’imposizione di un tetto al prezzo del gas. L’idea di Draghi è di fissare un prezzo massimo a livello europeo, ipotesi che finora si è scontrata con il secco no dei Paesi meno esposti al ricatto del Cremlino, ma si fa largo anche la proposta di un tetto italiano, sostenuta in ultimo anche dal presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Su questo scenario è la politica nostrana a essere divisa: Giorgia Meloni ha chiarito di non essere favorevole e lo stesso ministro Cingolani aveva di recente spiegato che la strada non fosse praticabile, perché in Europa ci è riuscita soltanto la Spagna, sostanzialmente isolata sul piano energetico rispetto al resto del continente, mentre noi ne siamo al centro. Difficile dire se questa misura – soprattutto se adottata a livello europeo – possa davvero funzionare. Di sicuro tagliare le unghie alla speculazione ad Amsterdam dovrebbe essere la priorità per tutti, in questo momento.
GIOCARSI LA CARTA DRAGHI
Ma guardando al domani (e anche al dopodomani), la certezza è che il prossimo governo dovrà fare qualcosa per evitare che gli avvoltoi della speculazione – di ogni tipo – continuino e tornino di tanto in tanto a planare sulle nostre teste. Per scacciarli definitivamente ci vorrà tempo: dovremmo mettere in sicurezza il debito, abbassando il rapporto con il Pil dall’attuale 160% quasi ad almeno il 100% (e si ottiene riducendo il debito stesso, ma anche aumentando la crescita economica); e dovremmo rivedere radicalmente la nostra strategia energetica nazionale, tornando a estrarre gas, costruendo rigassificatori, rispolverando il nucleare (ma di ultimissima generazione), puntando sulle rinnovabili per la quota che realisticamente può essere utile al sistema. Fino ad allora, però, servirà un ombrello da aprire sulle nostre teste: tra il 2011 e il 2019 è stato Mario Draghi a tenerne il manico, salvando l’Euro ma anche tutelando l’Italia con l’acquisto massiccio di titoli di Stato che hanno allontanato gli speculatori. Ebbene, se Giorgia Meloni sarà veramente il prossimo presidente del Consiglio, accetti questo consiglio non richiesto: faccia un accordo quadro con il Pd per un avvicendamento immediato – già a ottobre – tra Paolo Gentiloni e Mario Draghi nel ruolo di Commissario europeo all’Economia. E, se possibile, lavori in qualità di presidente dei Conservatori europei a un allargamento della maggioranza che porti l’ex presidente della Bce prima (meglio) o dopo le prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo alla guida della Commissione. Tra i due, si dice, nonostante le distanze c’è intesa e stima. Non sprechiamo questa affinità.