di Alan Patarga
Il monito più severo al premier Mario Draghi lo ha rivolto, appena ieri sera, Silvio Berlusconi. “La casa non può essere considerata un bene di lusso e il no di Forza Italia a nuove tasse resta un punto fermo”, il senso della sua telefonata all’inquilino di Palazzo Chigi.
L’incidente che è quasi costato la caduta dell’esecutivo, e cioè il voto in Commissione che per un soffio non ha dato ragione al centrodestra sulla revisione del sistema catastale nell’ambito della riforma del fisco, è senza dubbio un segnale importante. Ma non isolato. A detta di moltissimi osservatori – in primis la storica associazione dei proprietari di case, Confedilizia – l’idea di rivedere gli estimi, adeguandoli ai valori di mercato e passando dal sistema dei vani a quello dei metri quadrati, non può essere ridotta a un “censimento tecnico” privo di effetti sulle tasche dei contribuenti. Difficile dar loro torto: non si vede perché si dovrebbe “fare ordine” nel catasto italiano, se non per dare al fisco una nuova base (certamente allargata) per imporre nuove tasse, o rafforzare quelle esistenti. D’altro canto è quello che da tempo chiedono a tutti i governi italiani l’Ocse e la Commissione europea: trasferire il peso del fisco dal lavoro alle “rendite”. Discorso che sarebbe sensato, senza dubbio, in un Paese in cui – come spesso accade all’estero – la proprietà immobiliare fosse appannaggio soprattutto di grandi fondi o di ristretti gruppi di facoltosi. Ma da noi avere un’abitazione di proprietà è prassi pressoché generalizzata, il tasso dei padroni di casa è da sempre vicino all’80% della popolazione e il grosso del patrimonio è costituito da abitazioni principali. Per quello Berlusconi, parlando con Draghi, ancora ieri rivendicava di essere stato il capo di governo ad aver abolito l’Ici sulla prima casa ed essere riuscito poi (sostenendo l’esecutivo Letta nel 2013) a sgravarla anche dell’Imu imposta dall’austerity di Monti.
FISCO PIÙ ESOSO
La verità è che il Covid e ora la guerra in Ucraina, con i loro effetti e strascichi (anche il Pil record del 2021, +6,6%, va letto in controluce del -8,9% dell’anno precedente) ci hanno distolto dai nostri annosi problemi – l’iper tassazione e il debito alle stelle – che non soltanto non se ne sono andati, ma nel frattempo sono addirittura peggiorati.
Il peso del fisco, per dire, è aumentato perfino in un’annata – quella appena trascorsa – in cui era necessario sprigionare le forze fresche della ripresa dopo l’orribile 2020, e nel corso del quale non sono mancate oltretutto battute d’arresto per molti settori, soprattutto quelli legati alla libera circolazione di cittadini e stranieri, come il turismo. Dice l’Istat che la pressione fiscale è salita fino a quota 43,4% (era al 42,8% nel 2020), nonostante moratorie e proroghe varie. Parlando del Pnrr, nei giorni scorsi il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, ha fatto appello agli imprenditori perché mostrino coraggio, credendo nel Paese e investendo di più: la sensazione, a fronte di dati come questo, è che l’appello possa cadere nel vuoto, o quasi.
PER L’UE RESTIAMO NEL MIRINO
L’altro nodo mai sciolto è quello del debito pubblico, oltretutto gonfiato a dismisura dalle irrinunciabili misure anti Covid. Irrinunciabili sì, ma non abbastanza da placare Bruxelles. Che nei giorni scorsi ha ripreso a richiamare il nostro Paese ai doveri di morigeratezza sul bilancio pubblico. Per adesso, “grazie” alle due crisi, scampiamo una procedura d’infrazione per debito elevato, ma il senso degli interventi dei commissari Gentiloni e Dombrovskis era che – al netto di una possibile revisione delle regole contabili Ue nel prossimo futuro, nella direzione di una maggiore flessibilità – presto o tardi dovremo affrontare l’insostenibile pesantezza delle nostre finanze. Restiamo, cioè, l’osservato speciale in Europa, in compagnia della Grecia. Ma con il “piccolo” inconveniente di essere più grandi, e quindi avere in termini assoluti un fardello più pesante da sopportare: siamo a oltre 2.700 miliardi, al 159,1% del Pil, un’enormità sia pure in calo rispetto al 2020. Atene è al 200%, magra consolazione. Anche perché la guerra, la crisi energetica, le crescenti difficoltà nella catena degli approvvigionamenti delle materie prime stanno minando le basi di una crescita economica che già in questo 2022 si preannuncia meno robusta del previsto. Un bel problema per chi, come noi, sperava di ridurre il rapporto debito-Pil più grazie all’aumento del secondo, che non sulla riduzione del primo.