1. Dall’homo faber alla rivoluzione digitale
Laurà, laurà, laurà è il ritornello che la gens bergamasca – che si muove nel cuore economico d’Europa – ripete con fierezza per vantare la propria passione per il fare; e nel contempo per prendere di traverso altre comunità meno laboriose. Tuttavia, a prescindere (direbbe Totò) sia dagli stakanovisti che dai fannulloni, sarebbe bene rivedere il prototipo del torchiato e depresso lavoratore nostrano, come idealizzato da certa diffusa cultura nordica. Un modello di soggetto costruito – confondendo i mezzi con i fini – intorno alla deviante assimilazione del lavoro con la stessa vita nelle sue molteplici altre esigenze affettive, emotive, conoscitive e ricreative.
È in ogni caso risaputo che l’essere umano non può sopravvivere senza la fatica quotidiana. Per questo l’homo faber, trasformatosi nei secoli in homo sapiens (si fa per dire!), grazie alla sua esclusiva capacità genetico-evolutiva, scoprì il valore essenziale del lavoro sin da quando riuscì a distanziarsi dallo scimpanzé.
Così che, nel corso della storia, una larga fetta di umanità, attraverso la creatività e l’adattamento della tecnologia manifatturiera, imprenditoriale e professionale, è stata capace di procurarsi il cibo e di soddisfare altresì nuovi bisogni materiali, spirituali e di contesto, a mano a mano diventati necessari per cercare di stare meglio a questo mondo.
Stimolato dunque dalle lusinghe della rivoluzione digitale che procede di suo nell’innovare senza limiti, l’uomo cibernetico (sapiens sapiens?) pensa di mandare in soffitta l’antica cultura cosiddetta del polpastrello. Il sapere cioè proprio di un fare manuale costruito su competenze, trasmesse per secoli da padre in figlio e affidate alla collaudata sensibilità della mano, all’estro e al talento artigiano.
Mestieri pertanto idonei a soddisfare, con il noto gusto italico e la diretta responsabilitàetica e giuridica, ogni tipo di esigenza, dal fabbro al falegname al muratore…fino allo stregone.
Di conseguenza, l’uomo “nuovo” si va staccando da madre natura seguendo percorsi aggressivi e predatori, e causando tra l’altro la frammentazione delle relazioni di prossimità (quelle del vicolo accanto), e creando altresì i problemi legati alla transizione ambientale-energetica, ai cambiamenti climatici, ecc.
Si profila così un contesto artificiale, gravato dalla scarsezza di risorse, di tempi e di spazi, e assediato da diffusa inquietudine, testimoniata in primis dai nostri ragazzi bisognosi di umanizzare il proprio disorientamento.
2. Il lavoro in Costituzione e nella normativa ordinaria
Anziché immaginare lo stato intimo della felicità a portata di mano, come pretende l’incipitdella Dichiarazione di Indipendenza USA del 1776, l’art. 1 della nostra Costituzione del 1948 si limita a dichiarare che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Viene così richiamato il concetto di opus, che nella civitas romana designava ogni opera realizzata dall’attività umana fisica e creativa, quale fonte rappresentativa della dignitàdella persona e insieme della coesione sociale.
Di conseguenza, l’art. 4 attribuisce a tutti i cittadini “il diritto al lavoro” e insieme “il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Peraltro, il vincolo che lega siffatto diritto/dovere si inquadra nel fondamentale catalogo che garantisce i “diritti inviolabili dell’uomo”, nonché tra i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2); con l’ulteriore richiamo ai principi di “pari dignità sociale” e di uguaglianza dei cittadini “davanti alla legge”, e con la successiva precisazione (art. 23) che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
Nel quadro poi delle norme di cui al Titolo III, dedicato ai “Rapporti economici”, l’art. 35assegna alla Repubblica la “tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, nonché della connessa “tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32).
Infine, nell’ambito della libera iniziativa economica privata, l’art. 46 “riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”, e ciò anche “ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro”.
Ora appare piuttosto sbrigativa l’idea di chi ritiene che il citato assetto costituzionale debba essere aggiornato, almeno per sintonizzarlo con la più radicale rivoluzione dei modelli lavorativi imposti dal pervasivo impatto della Intelligenza artificiale (IA).
È invece lecito sperare che i valori di fondo che innervano il vigente impianto costituzionale possano restare ancora ben saldi. A condizione tuttavia che la cultura digitale venga presto regolamentata – a livello universale – sulla base di un ragionevole raccordo tra i suoi infiniti utilizzi e i tanti rischi relativi (marginalizzazione dell’uomo, violazione della privacy, ecc.).
Intanto, siamo tutti costretti a fare i conti con la stratificata pletora della normativaordinaria, che da decenni disciplina il sistema lavoro, spesso sotto l’urgenza di continue emergenze.
È poi però qui possibile solo citare la normativa speciale, dettata da: – Statuto dei diritti dei lavoratori (legge n. 300/1970); – Decreto legislativo n. 231/2001 in materia di responsabilità amministrativa degli enti (imprese) in base al cosiddetto catalogo dei reati-presupposto; – Decreto legislativo n. 81/2008 (e successive modifiche e integrazioni) in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, con particolare attenzione ai numerosi sempre più ricorrenti infortuni (anche mortali!); – Decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 in materia di crisi d’impresa e dell’insolvenza (fallimenti); – Decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36 in materia di contratti pubblici (appalti).
Assistiamo dunque a una eccessiva e poco democratica “giuridicizzazione”.
Ossia alla pretesa dell’ordinamento giuridico di mettere naso in tutti i comportamenti umani, lasciando poi ai cittadini, ai giuristi e alle Autorità competenti ampi margini di incertezza e di valutazioni discrezionali. Così da evocare la mordace battuta attribuita al più volte Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti (1842-1928): “la legge per gli amici si interpreta, per i nemici si applica”.
3. Il lavoro visto dalla Gen Z
Molti analisti si chiedono quale sia oggi il rapporto tra il lavoro e i giovani della Gen Z, quelli cioè nati tra il 1997 e il 2012 e cresciuti tra le mille crisi di inizio terzo millennio (conflitti geopolitici, inflazione, bassi salari, ecc.).
In un mondo già devastato dalla pandemia e ora abitato dalla complessità che oscura qualsiasi ipotesi di futuro, i più recenti riscontri sociologici ci raccontano che i nostri ragazzi cercano, attraverso il lavoro, prospettive di sicurezza per il maggior benessere personale possibile.
La crescita della componente digitale li porta inoltre ad apprezzare la flessibilità vita-lavoroanche tramite lo smart-working, considerando comunque strategico il proprio capitale umano, senza tuttavia mirare ad arricchirsi al costo di sacrificarsi nella totale dedizione al lavoro.
Consapevoli poi della loro fragilità rispetto al consumismo di massa e alla mancanza di una rete istituzionale valida nella politica attiva del lavoro, essi analizzano con inquietudine le sfide che li attendono: criticità occupazionale, deficit di ammortizzatori sociali, calo demografico, gender gap e molestie di tipo sessuale a danno delle donne lavoratrici, salario minimo legale…
Infine, i nativi digitali si mostrano particolarmente sensibili di fronte alla molto critica transizione ambientale. E, nel timore di cadere vittime di nuove forme di schiavismo (es. la testa sempre china sul telefonino), essi sognano una sorta di ecologia integrale, tesa a superare l’attuale cultura (!) del lavoro completamente asservita alla logica del profittoinsaziabile e irresponsabile.
Essi sanno bene, infatti, che vivono in un mondo depredato, avviato ormai verso un punto di rottura (v. Papa Francesco, Esortazione Apostolica “Laudate deum”- 4 ottobre 2023).
Dott. Benito Melchionna
Procuratore emerito della Repubblica