di Alessandro Giugni
Da più di un anno siamo chiamati a confrontarci con la redazione del modulo di autocertificazione per giustificare gli spostamenti sul suolo della Repubblica. In caso di false attestazioni, due sono le fattispecie di reato, ai sensi del Titolo VII del Codice Penale, ritenute contestabili al cittadino: la falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, ex art. 483 c.p., e la falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri, ex art. 495 c.p.
Se, da un lato, non vi sono dubbi circa il fatto che il dichiarante risulterà perseguibile in caso di dichiarazioni mendaci relative alla propria identità o al proprio stato ex art. 495 c.p., forti dubbi sorgono in relazione alla perseguibilità per il reato previsto dall’art. 483 c.p.
In primis, assume rilevanza la sentenza n.2496 del 19/12/2019 della V Sezione Penale della Corte di Cassazione. Essa, infatti, ha categoricamente escluso la configurabilità del dolo generico «quando la dichiarazione ritenuta non veritiera sia contenuta in un modulo prestampato». Non solo. Non può essere attribuito a un documento (quale, ad esempio, l’autocertificazione) il valore di atto pubblico in virtù del collegamento funzionale di detto documento a un atto amministrativo (es. il DPCM). Il delitto di cui all’art. 483 c.p., dunque, sussisterà solo qualora l’atto nel quale verrà trasfusa la dichiarazione del privato sarà destinato a provare la verità dei fatti narrati e qualora si tratti di attestazioni che il pubblico ufficiale ha il dovere di documentare.
In secondo luogo, laddove il cittadino dovesse risultare sprovvisto di autocertificazione, spetterà al p.u. il compito di consegnargli il modulo ai fini della sua compilazione. Anche in questo caso, laddove dovessero essere rese false attestazioni, difficilmente risulterebbe punibile il cittadino per il reato previsto dall’art. 483 c.p. in quanto, come sancito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.9195 del 19/01/2016, «il verbale della polizia, contenente le dichiarazioni del privato, non è destinato ad attestare la verità dei fatti dichiarati ed il reato in questione è ravvisabile quando l’atto pubblico, nel quale sia trasfusa la dichiarazione del privato, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati».
Infine, è opportuno ricordare la sentenza del GIP di Milano n.1940 del 16/11/2020, con la quale si è stabilito che con la locuzione «fatti», contenuta nell’art. 483 c.p., si fa riferimento unicamente a eventi già verificatisi e quindi suscettibili di accertamento. Di conseguenza, la mera attestazione di un’intenzione (es. indicare in autocertificazione l’intenzione di andare in un luogo) non assume rilevanza ai fini dell’insorgere della fattispecie delittuosa prevista dall’art. 483 c.p.