di Gabriele Rizza
Come previsto dai sondaggi e dall’assenza di dibattito pubblico tra i social, salotti televisivi e segreterie dei partiti, il referendum sui cinque quesiti riguardanti la giustizia è naufragato attestandosi intorno al 21% di affluenza alle urne. Un fallimento annunciato, però per molteplici ragioni che vanno aldilà del favore o la contrarietà degli italiani al tema della giustizia e ai cinque quesiti in generale. Infatti, la storia dei referendum in Italia fin dalla fondazione della Repubblica – la nostra Repubblica nasce proprio grazie ad un referendum, non abrogativo, ma pur sempre referendum – ha visto particolare affluenza, successo o acceso dibattito soprattutto sui temi etici, dove a prevalere era il carattere morale e valoriale più di quello tecnico e politico. E da questo punto di vista i cinque quesiti partivano in netto svantaggio, ancor di più se si pensa alla tecnicità dei quesiti posti sulla scheda elettorale e ancor prima sulla canonica pubblicità elettorale andata in onda sulla RAI e su Mediaset. Insomma, per paradosso, sembra più facile portare gli italiani a votare per la cannabis che per la giustizia, ma questo non è perché agli italiani importi poco della giustizia e molto dalla cannabis, ma perché i quesiti devono essere chiari, definiti, spiegati bene e facilmente discutibili. Soprattutto, la storia dei referendum ci dice che meno sono le schede e più c’è affluenza. Non è una regola assoluta, ma è una costante. Forse, i promotori del referendum sulla giustizia dovevano tenere conto di questa dinamica e lavorare ad ottenere di meno nell’immediato ma ad ottenerlo. Ad esempio, puntare solo sulla separazione delle carriere dei magistrati, ottenendo un successo, poteva essere un buon incipit da trasmettere al Parlamento per lavorare ad una riforma della giustizia più ampia, e magari condivisa da più forze politiche visto il favore trasversale del popolo. Di conseguenza, l’esperienza dell’ultima consultazioneci dice che le riforme, giuste o sbagliate che siano, non possono essere realizzate mediante referendum abrogativo. C’è poi un altro elemento che ritorna ad ogni referendum: quelli promossi dal centrodestra non hanno mai successo. Un elemento che deve far riflettere i partiti d’area, spesso i più votati alle politiche ma che difficilmente smuovono gli animi dei propri elettori in queste occasioni. Sicuramente conta l’orientamento subliminale di molti media e giornali, più vicini al partito dell’establishment rappresentato dal Partito Democratico, tuttavia il centrodestra deve ragionare sulla capacità e i metodi di coinvolgimento del proprio potenziale elettorato aldilà delle elezioni politiche. Forse il voto di protesta legatosi al centrodestra negli ultimi anni (eccetto che per Forza Italia) è ora che diventi un voto di azione e progetto, saldo, coinvolgente e partecipato.