di Alessandro Giugni
«Se cerco di ricordare Güiraldes, cui continuo a voler bene nonostante l’incidente, per così dire, della sua morte, che dev’essere avvenuta nel 1929; se voglio ricordarlo, quel che ricordo sono fotografie di lui, perché la fotografia sta ferma e si presta di più al ricordo. Mentre il volto di una persona è mobile e difficile da fissare nella memoria… E questo mi accade non solo con Güiraldes, ma anche con mia madre e mio padre; se penso a loro, ricordo fotografie».
È così che Jorge Luis Borges, nel suo Libro de diàlogos, ricorda l’amico e collega Ricardo Güiraldes. Le parole dello scrittore argentino sono, altresì, fondamentali per introdurre una tematica di primaria rilevanza ai fini della comprensione della natura della fotografia e della maturazione di una consapevolezza nell’atto del vedere (e percepire) il mondo intorno a noi: la differenza tra lo sguardo fisiologico dell’essere umano e quello della macchina fotografica. Luis Borges evidenziò come fosse per lui più facile ricordare le fotografie dell’amico, del padre e della madre, rispetto al mettere a fuoco nella sua mente l’immagine in movimento dei loro volti. Una constatazione, questa, che a ben pensarci riguarda ognuno di noi. Perché questo accade?
La ragione di ciò la possiamo cogliere assumendo come punto di partenza gli studi che la scienza ha condotto relativamente al meccanismo di funzionamento della vista. I nostri occhi, infatti, compiono continuamente una moltitudine di impercettibili spostamenti semi-casuali, definiti “saccadi”, aventi una durata tra i 20 e i 50 millisecondi e intervallati da brevi periodi di stasi. Questi ultimi sono, in gergo tecnico, definiti “fissazioni” e hanno una durata che varia dai 200 ai 250 millisecondi. Durante i movimenti saccadici, gli occhi descrivono archi di diversi gradi a una velocità di circa 700-800 gradi al secondo, motivo questo per il quale il momento nel quale noi “stiamo effettivamente vedendo” è esclusivamente quello nel quale vi sono le fissazioni. Si può, dunque, affermare che la vista sia a tutti gli effetti sospesa mentre sono in corso le saccadi. Infine, l’intervento della corteccia cerebrale, che “unisce” le fissazioni, ci garantisce di avere una percezione di continuità.
Grazie alla spiegazione fornitaci dalla scienza, risulta facilmente comprensibile il motivo per il quale l’essere umano riscontra una maggiore difficoltà nell’immagazzinare e ricordare una pressoché infinita quantità di dati, quali quelli incamerati dall’organo visivo durante tutto l’arco della nostra vita, risultando, invece, più agevole memorizzare un elemento statico quale una fotografia. Possiamo, dunque, affermare che parte della notevole fortuna dell’arte della fotografia risieda nell’elementarietà di questo medium.
Nel corso degli ultimi due secoli, però, alcuni celebri autori hanno messo in discussione l’idoneità della fotografia di rappresentare fedelmente la realtà che ci circonda. Celebre l’osservazione che il filosofo e matematico russo Pavel Aleksandrovič Florenskij affidò a uno dei suoi più famosi scritti, Il significato dell’idealismo: «Una fotografia istantanea fissa artificialmente un momento e un punto, creando l’illusione di qualcosa di morto e immobile. Al contrario il pittore con un materiale inerte, morto, dà forma al movimento […] Il pittore crea immagini di vita». Una simile affermazione è con ogni probabilità dovuta alla conoscenza che Florenskij aveva delle riflessioni dello scultore e pittore francese Auguste Rodin, il quale, riferendosi all’opera Il derby di Epsom di Jean-Louis-Théodore Géricault (clicca qui per vederla), evidenziava come l’obiettivo dell’artista, nel rappresentare i cavalli galoppare ventre a terra (ossia con le zampe anteriori e posteriori lanciate indietro e in avanti contemporaneamente), fosse quello di permettere all’osservatore di percepire il “soffio vitale” degli animali in corsa. Secondo Rodin: «in effetti nella fotografia quando le zampe anteriori del cavallo arrivano avanti, quelle posteriori, dopo aver dato con lo scatto la spinta a tutto il corpo, hanno già avuto il tempo di tornare sotto il ventre».
Per scardinare il preconcetto secondo il quale la fotografia non fosse in grado di rappresentare il movimento a causa della sua elementarietà furono determinanti gli studi sulla locomozione animale condotti da Etienne-Jules Marey, studi questi che culminarono nella realizzazione dell’opera Salto (clicca qui per vederla) che per prima dimostrò la possibilità di cogliere il movimento attraverso una fotografia.
La scoperta di Marey suscitò tanto clamore da indurre l’ex governatore della California, Leland Stanford, a incaricare, nel 1872, il fotografo Eadweard J. Muybridge di cogliere, attraverso la macchina fotografica, il trotto del purosangue Occident, cavallo di punta della scuderia personale di Stanford. Dopo un primo tentativo, che portò alla realizzazione di una mera istantanea a 1/1000 di secondo (clicca qui per vederla), egli decise di disporre lungo la pista da corsa dodici macchine fotografiche, ciascuna con l’otturatore armato a 1/2000 di secondo e collegato a un filo di lana teso lungo la pista stessa. Il cavallo, correndo, avrebbe spezzato i vari fili, azionando di conseguenza l’otturatore di ogni singola fotocamera. Muybridge ottenne, così, una sequenza di dodici immagini (clicca qui per vederle) che stravolgeva completamente i canoni artistici fino ad allora seguiti nella rappresentazione dei cavalli al galoppo.
Fu così che l’interesse nei confronti della fotografia crebbe enormemente ed è grazie all’influenza dell’opera di Muybridge che oggi molti fotografi prediligono il ricorso a tempi di posa lunghi al fine di comunicare il movimento dei soggetti in scena.