di Gabriele Rizza
L’anno scolastico volge al termine palesando tutta l’inadeguatezza della didattica a distanza. Gli studenti di ogni grado torneranno a posare i quaderni sul banco a settembre. Il governo, tramite il ministro dell’istruzione Lucia Azzolina e il comitato tecnico scientifico, non ha ancora definito il documento relativo alle modalità di rientro a settembre e allo svolgimento dell’attività didattica. Quasi certo sarà lo scaglionamento in entrata, si ipotizza fino alle 10, e in uscita, fino alle 16. Probabile sarà la riduzione dell’ora didattica a 45 minuti. Inoltre, c’è da affrontare un altro tema insidioso: il distanziamento interpersonale all’interno delle aule. Infatti non tutte le aule delle scuole italiane hanno le stesse dimensioni e lo stesso numero di alunni, cosicché sarà caotico garantire la sicurezza a chi ogni giorno abita le aule.
I problemi sono a monte e gli stessi che attanagliano l’istruzione italiana da decenni: la totale insufficienza di investimenti in personale e in infrastrutture. I risultati sono classi pollaio con più di trenta alunni, edifici scolastici pericolanti, con infiltrazioni d’acqua, inaccessibili ai disabili o addirittura chiusi e protagonisti del degrado urbano. In questo contesto, la partita per il governo si fa ancora più ardua, soprattutto se le idee e i fondi scarseggiano. L’idea delle lezioni di 45 minuti non è un regalo agli insegnanti (come qualcuno a cui la scuola non è mai piaciuta potrebbe pensare) bensì un danno alla loro professione e di conseguenza all’istruzione di ragazzi e ragazze. La riduzione del minutaggio comporterà un maggior numero di ore, che arriveranno a 24. Anzi, il carico di lavoro aumenterà sensibilmente. Avranno quindi più alunni da seguire e far crescere, più lezioni e compiti da preparare e correggere, più classi. Tutto a danno del percorso personale educativo e formativo degli alunni che, non è mai male ricordarlo, un giorno manderanno avanti l’Italia.
Aggiungiamoci che l’Italia non è più quella degli anni novanta. Le affollatissime aule scolastiche accolgono oggi studenti figli di immigrati, magari arrivati in età scolastica più avanzata, che necessitano, giustamente -se l’integrazione è un valore e non vogliamo finire come i sobborghi di Parigi – di più attenzione da parte dell’istituzione scolastica. Soprattutto, l’insegnante del 2020 personalizza molto di più la didattica: dal 2010, è in vigore La Legge n. 170 dell’8 ottobre 2010 “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” che riconosce la dislessia, la disortografia, la disgrafia e la discalculia quali disturbi specifici dell’apprendimento, abolendo di fatto quel pensiero incivile e aberrante del bambino stupido. Lo spirito inclusivo della legge permette ai docenti di dar vita a un percorso didattico personale e inclusivo a tutela del loro diritto allo studio e all’inserimento sociale.
In queste condizioni di infrastrutture al collasso e di personale sovraccarico di lavoro, sarà impossibile per il sistema scolastico portare a termine la propria missione: garantire il diritto allo studio. È una storia lunga che viene da lontano. Riassumendola, per i governanti la scuola è un pendolo che oscilla tra l’assistenzialismo e i tagli lineari, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, delle lavagne digitali.
E la storia restituisce quello che semini: politici influencer, ponti che crollano e l’arte scambiata per divertimento (Conte dixit).