di Giorgia Scataggia
Questa testimonianza, raccontata in diretta aRadio Critical Break, ha un apparente lieto fine. I figli di Silvia, protagonista della vicenda, sono tornati a casa. Ma questo lieto fine ha il retrogusto del dileggio ed odora di business, perché Silvia, oggi, si ritrova a dover versare il rimborso spese per la permanenza dei figli nella struttura dove furono assegnati, che ammonta a poco meno di 30.000 euro.
OLTRE AL DANNO LA BEFFA.
La storia di Silvia inizia nel 2015, con la separazione dal marito. Una situazione tutto sommato tranquilla, senza particolari tensioni che potessero fare presagire l’avvento di problemi di altro tipo: “Inizialmente tutto era tranquillo, poi nel 2017, senza alcun motivo, il giudice ha imposto che i miei figli fossero collocati in una casa famiglia. Non trovo adeguato questo termine, perché questi luoghi non hanno nulla a che vedere con una famiglia. I miei figli hanno vissuto questa esperienza in modo traumatico, da reclusi. Non gli era concesso di fare praticamente nulla, non potevano frequentare gli amici ne uscire dalla casa famiglia non accompagnati. Mia figlia, che ha 14 anni, non se la sentiva nemmeno di praticare sport, perché per lei, recarsi al campo sportivo accompagnata dall’educatore anziché dai genitori, era fonte di grande imbarazzo. Si sentiva osservata e subiva i pregiudizi dei genitori dei suoi coetanei. Oggi i miei figli sono nuovamente a casa, in quanto alla fine sono stata ritenuta idonea al ruolo genitoriale. Dopo tutto quello che abbiamo passato a causa dell’errore di altri, il Comune mi ha fatto arrivare una fattura che ammonta a più di 29.000 euro, con tanto di sollecito, corrispondente al 35% del rimborso spese della casa famiglia dove hanno risieduto i miei figli. Il restante 65% è a carico del mio ex marito”.
La vicenda ha suscitato sgomento negli avvocati Sara Fiorino e Luciano Randazzo, presenti in studio.
LE CASE FAMIGLIA COME RECLUSORI MINORILI
Inflessibile ed incisivo l’intervento dell’avvocato Randazzo: “Sono angoscianti le somiglianze che si possono rilevare tra tutto ciò che è connesso fra i provvedimenti minorili ed i procedimenti penali in tema di esecuzione e pena. Anche il condannato, al termine della pena, deve pagare le spese di soggiorno nelle patrie galere. Anche al detenuto viene spesso negata la possibilità di visitare i propri affetti anche in situazioni particolari, come l’imminente perdita di un parente prossimo. Effettivamente i bambini, in queste realtà, vengono trattati come veri e propri detenuti. Se andassimo a leggere le condizioni contrattuali che i genitori debbono sottoscrivere, ci potremmo rendere rapidamente conto che nulla è cambiato rispetto ai reclusori minorili degli anni ’50”.
A conferma delle parole dell’avvocato Randazzo è intervenuta anche l’avvocato Fiorino: “Queste normative sono vecchissime. Le cosiddette case famiglia nacquero attorno agli anni ’30 come strutture correttive per i minori e tali sono rimaste”.
Noi de La Critica ci auguriamo che Silvia, con il suo legale, riesca ad impugnare e reclamare nelle sedi competenti l’assurda richiesta di denaro che le è stata fatta.