di Stefano Sannino
Una delle prime questioni con cui i nostri antenati si sono dovuti confrontare, è la Morte. Quel misterioso avvenimento che ha carattere di certezza pari alla nascita e che tanto spaventa alcuni di noi. Eppure, a parte la paura, la Morte ha sempre esercitato un fascino misterioso sull’essere umano, instillandogli perfino il desiderio di venerarla come Divinità.
Secondo gli studi del paleoantropologo Leroi-Gourhan, un primo indizio di cultualità della Morte è rintracciabile perfino nell’Homo Neanderthalensis, il quale era solito posizionare negli angoli delle sue caverne, i teschi degli animali uccisi durante la caccia, probabilmente a scopo propiziatorio e protettivo.
Anche gli studi di Marja Gimbutas, hanno portato in evidenza, come nelle civiltà dell’antico MedioOriente, fossero evidenti alcune figure divine legate alla Morte, in particolare nel suo aspetto femminile.
Insomma, la cultualità del Trapasso pare abbia sempre esercitato grande attrattiva sull’uomo, portando oggi ad avere alcuni culti estremamente diffusi in alcuni paesi del mondo.
Ci basti pensare alla Santa Muerte, divinità messicana e Sud Americana, sincretizzata con la v e r g i n e M a r i a d o p o l ’ a v v e n t o d e i Conquistadores, ma il cui culto era in realtà ben antecedente.
Oggi, il culto della Santa Muerte è largamente diffuso in molti paesi dell’America Latina e sta vedendo anche una timida espansione nei paesi Occidentali.
Ma perché la Morte è sempre stata investita di questo fascino intimidatorio dall’essere umano? Abbiamo davvero bisogno di temere il momento della nostra dipartita?
Queste sono le domande che hanno dato il via a moltissime religioni di stampo escatologico, inducendo l’uomo a non temere la morte, in vista di una rinascita ulteriore ed eterna. Ma, penso che la domanda sia molto più profonda dell’interpretazione religiosa che consiste nella speranza di una rinascita.
Ritengo infatti, che la Morte abbia questo fascino sull’uomo poiché costituisce di fatto, l’unica certezza della nostra esistenza. Come diceva Heidegger, noi non scegliamo di nascere o di morire, ma possiamo solo scegliere come vivere.
Ora, nascita e morte sono dunque le uniche certezze che caratterizzano la nostra esistenza. Sono certezze immutabili, statiche, sicure. Nessuno può modificarle e tutto l’Universo è soggetto a questi due momenti: creazione e distruzione, nascita e morte.
Ecco allora spiegato perché gran parte delle usanze religiose più antiche si fondasse proprio su questi due momenti dell’esistenza, racchiusi spesso in un un’unica figura religiosa che li potesse convogliare in aspetti propiziatori o apotropaici.
La Dea descritta dalla Gimbutas, ad esempio è una Dea che può essere sì della Morte, ma anche della Vita e della Nascita. Così, la Santa Muerte, non è solo la Divinità che scorta gli spiriti dei defunti nell’Oltretomba, ma è anche la Dea che porta le grazie dell’abbondanza, della fertilità e della ricchezza.
Insomma, se si analizzano i culti della morte da un punto di vista più profondo, si scopre che questi in realtà non siano altro che particolari implicazioni del culto della vita. Niente e nessuno può morire se prima non è nato. Ecco allora, che ancora una volta, le diverse forme della religiosità umana ci dimostrano come la nostra esistenza non sia altro che una serie di cause ed effetti a volte dipendenti da noi, altre volte completamente indipendenti. Nel primo caso, l’uomo diviene Faber suae quisquae fortunae, nel secondo può decidere se assoggettarsi o meno a questa sua infima presenza nel grande cerchio dell’esistenza.