Lunedì 7 Agosto, intorno alle 22.30, tre writers sono riusciti a salire, utilizzando probabilmente delle scale di servizio di alcuni locali adiacenti, in cima alla Galleria Vittorio Emanuele II di Milano, in piazza Duomo, imbrattandola con alcuni graffiti e creando, giustamente, scandalo tra i presenti e tra le autorità. I tre sono riusciti a sfuggire ed attualmente sono ricercati dalla polizia.
L’indignazione comune per un simile gesto può essere letta nell’ottica dell’esasperazione che la popolazione italiana sta vivendo negli ultimi mesi sulla scia dei numerosi danneggiamenti alle opere pubbliche operate non solo da turisti incoscienti, ma anche da veri e propri gruppi organizzati, come nel caso del ben noto “Ultima Generazione”.
Che questi atti siano frutto di incoscienza o di un movimento di protesta, però, è essenziale comprendere le ragioni non solo di chi li perpetra, ma anche e sopratutto dell’indignazione creata da suddetti gesti. Se da un lato, infatti, i più sempre numerosi turisti che incidono le proprie iniziali su monumenti storici di rilevanza mondiale, come il Colosseo a Roma, sono probabilmente il frutto di un fallimento del sistema educativo nazionale ed internazionale, dall’altro possiamo identificare nei movimenti di protesta e nell’impiego del danneggiamento delle opere pubbliche come veicolo di un messaggio, una vera e propria ignoranza sistemica, relativa alla credenza che le opere d’arte da un lato siano usufruibili come meglio si crede e dall’altro che le stesse non abbiano che un valore simbolico.
Ritenere che un’opera d’arta non abbia valore intrinseco è, in poche parole, il preludio di ciò cui stiamo assistendo negli ultimi anni, con una sistematica svalutazione dell’opera d’arte stessa e con la conseguente giustificazione che tutto sia lecito, finanche il danneggiamento dell’arte, al fine di veicolare un messaggio più o meno condivisibile.
Ciò che però viene spesso dimenticato da questi gruppi, e dai singoli vandali, è che l’arte, che sia architettonica o pittorica, plastica o musicale, ha da sempre avuto un ruolo essenziale per lo sviluppo culturale della civiltà umana, poiché strettamente collegata con il nostro modo di percepire[1] il mondo. Dagli albori della società, l’arte è sempre stata strumento di manifestazione dell’invisibile[2], di reificazione del metafisico o dell’emotivo.
L’uomo si serve dell’arte, presente e passata, per comprendere se stesso.
Una cultura che priva l’opera d’arte della sua aura[3], che la rende fruibile al di fuori del senso originario in cui è stata concepita primariamente[4], la rende automaticamente utilizzabile a scopi che non siano prettamente disinteressati e, dunque, politicamente o socialmente orientati.
Il senso di un’opera d’arte, però, il suo hic et nunc[5], non è affatto qualcosa di utile e non deve esserlo. L’arte trova la sua utilità proprio nell’essere completamente inutile[6]. Nell’arte non vi sono messaggi (e non vi devono essere) se non quelli immaginati dall’artista e dall’osservatore.
Nel momento stesso in cui si crede di poter impiegare l’arte per veicolare un messaggio questa perde il suo hic et nunc e diviene tecnica. Ciò che fanno questi vandali, singoli o organizzati che siano, è dunque molto di più che imbrattare un’opera d’arte; siamo davanti ad un’azione di svalutazione del bello, di riduzione del senso, di semplificazione dell’essere: siamo davanti alla morte definitiva dell’arte.
[1] cfr. S. Givone, Prima lezione di estetica, Laterza, Bari 200
[2] cfr. L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile: Nicea e lo statuto dell’immagine, Aesthetica, Palermo 2017
[3] cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000
[4] ibid. p.22
[5] ibid.
[6] cfr. O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Introduzione, qualsiasi edizione
di Stefano Sannino