di Fabiola Favilli
Che rapporto avevano gli artisti del Rinascimento con il denaro? Se Michelangelo Buonarroti (1475 – 1564) non spendeva quasi nulla per se stesso e le uniche uscite erano per amici e parenti verso i quali era invece prodigo, Leonardo da Vinci (1452 – 1519) usava dire “Io non sono dipintore da quattrini”. Giorgio Vasari (1511 – 1574) nella sua opera “Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti”, ci informa che “Non avendo egli si può dir nulla”, poiché Leonardo era distaccato nei confronti del denaro e molto concentrato sulle sue opere. Era rigoroso nel tenere la contabilità ma registrava solo piccole spese quotidiane, non figuravano mai grandi somme nonostante egli abbia lavorato per i più ricchi committenti della sua epoca; era molto generoso verso gli amici purché avessero “ingegno e virtù”. Tutto questo appare chiaro nel suo testamento: morì nel 1519 ospite del Re di Francia Francesco I e lasciò ai suoi due assistenti Gian Giacomo Caprotti detto Salaì e Francesco Melzi le carte e le opere, non vengono citate somme perché evidentemente inesistenti.
Anche Andrea del Sarto (1486 – 1530) non dava molta importanza al denaro, perché il Vasari ci dice che richiedeva un “prezzo molto piccolo” per le sue opere: appena 10 ducati per ognuna delle Cinque Storie di San Filippo Benizi, dipinte nel 1510 nel Chiostrino dei Voti della Santissima Annunziata a Firenze. Tariffe basse ed estrema generosità, tanto che “et a sé et a’ suoi di continuo sovenendo nelle miserie”; le cose peggiorarono quando sposò Lucrezia di Baccio, giovane di grande “alterezza e superbia”, di cui era innamoratissimo e molto geloso. Per lei abbandonò gli studi d’arte e per far fronte alle continue spese della moglie espatriò, sulle orme di Leonardo da Vinci. In Francia guadagnò molto: il solo ritratto del figlio del sovrano gli fruttò 300 scudi d’oro ed in più ottenne grandi riconoscimenti, ma Lucrezia lo supplicava continuamente di rientrare a Firenze. Tornò da lei, che in pochi mesi dilapidò tutti i suoi denari; egli non tornò mai più in Francia ed accettava di tanto in tanto qualche incarico, quel che bastava per mantenersi. Vasari, che lo stimava e lo definì “pittore senza errori”, commentò severo:”… da una grandezza di grado venuto ad un infimo, si tratteneva e passava tempo.”
“… e sempre per povero ch’egli fosse, fu ricco d’animo e di grandezza”. Il Vasari stavolta parla di Giovan Battista di Jacopo di Gasparre, detto il Rosso Fiorentino (1494 – 1540), allievo di Andrea del Sarto, anche lui straordinario artista; lo ricorda come persona di bell’aspetto, gentile e raffinato, interessato alla musica ed alle lettere. Nonostante le indubbie capacità ed il molto lavoro che svolgeva a Firenze, fu bandito dalla città per insolvenza verso un creditore; visse a Piombino ed a Volterra e quando rientrò a Firenze ci rimase per poco tempo perché Vasari ricorda che entrò in conflitto con i suoi vicini di casa, i frati di Santa Croce, a causa della sua scimmia “un bertuccione ladra d’uva ed autrice di malefatte”. Il successivo soggiorno romano, nato sotto i migliori auspici per la recente elezione del Papa Medici Clemente VII, si concluse con un evento traumatico: durante il Sacco di Roma del 1527 il Rosso Fiorentino fu catturato, vessato, spogliato, umiliato e costretto ai lavori pesanti dai Lanzichenecchi. Fu poi a Perugia ed a Sansepolcro, da cui dovette fuggire nottetempo perché il giovedì santo del 1530 venne scoperto con un suo allievo in una chiesa a fare un fuoco con la pece greca per esercitarsi nella piromanzia. “Gli era già venuto capriccio di volere finire la sua vita in Francia e levarsi da questa miseria e povertà, poiché lavorando gli uomini in Toscana e ne’ paesi dove sono nati, si mantengono sempre poveri.” Vasari da buon amico raccolse lo sfogo del Rosso Fiorentino, ed appoggiò la sua volontà di seguire le orme di Leonardo e Andrea del Sarto mettendosi a disposizione del Re; nel giro di tre anni divenne Maestro dell’Opera di Stucco e di Pittura nella Gran Galleria di Francesco I, guadagnando mille scudi d’oro. Viveva ora in un palazzo con raffinate tappezzerie ed argenterie, aveva servitori e cavalli, ma questo benessere non durò molto: gli vennero rubate alcune centinaia di scudi ed il Rosso Fiorentino accusò del furto il pittore ed amico Francesco Pellegrino, che per questo fu torturato. Scoprendo che aveva accusato un innocente fu assalito dai sensi di colpa e, procuratesi un veleno potentissimo, si uccise.