“Sono stata anch’io bambina di mio padre innamorata…”, inizia così uno dei brani più celebri e disperati di Mia Martini. Un padre che la figlia avrebbe voluto diverso, ma che non è mai cambiato, perché “gli uomini non cambiano”. Un padre che potrebbe essere un fratello, un amico fidato, l’uomo che abbiamo pensato fosse quello della vita.
E’ una voce straziante, sono parole che attraversano la pelle quelle della Martini, quelle che contraddistinguono tutti i suoi pezzi, ma questo in particolar modo, forse perché appartengono ad ogni donna che si è innamorata, del padre, di un amico fidato, dell’uomo che ha pensato fosse quello con cui condividere tutta sé, e il resto della sua vita.
Anche la storia di Giulia Cecchettin riguarda tutte noi, attraversa la pelle e arriva dritta nell’intestino, dove per anni si è annidato anche tutto il resto: la rabbia, il dolore, il senso di abbandono, il disgusto, l’umiliazione, l’impellente necessità di un riscatto.
E’ per questo motivo che da giorni non facciamo che riempirci la bocca di nomi di persone che fino al mese scorso non sapevamo neanche chi fossero, come Giulia, Filippo, Elena, Gino. È per questo che ci sentiamo in dovere di dire la nostra, di riempire le home delle piattaforme social di giudizi morali, di analisi sociali e antropologiche. È per questo che guardiamo tutto dall’alto, come chi sa, chi se lo può permettere, chi è al di sopra. È sempre per questo che finiamo per vomitare un’infinità di luoghi comuni, di poesie tutte uguali, di sentenze identiche, spesso giustissime per carità, ma assolutamente inutili.
Il nome di Giulia viene inghiottito da quello del nostro profilo Facebook, o Instagram, o TikTok. Il nome di Giulia diventa contenitore di tutta la nostra ira, la nostra delusione, la nostra fatica e le nostre tristezze, perché in qualche modo ci siamo passate, non ne siamo morte…non ancora, ma sappiamo.
La storia di Giulia merita di essere spogliata di qualsiasi etichetta, almeno per alcuni giorni, quelli del lutto. Merita che ciascuna e ciascuno di noi ci pianga e ci rifletta su. Non ha diritto a un minuto di silenzio tra un’ora di lezione e l’altra, ma di ore, giorni e settimane di mutismo. Poi potremmo impossessarcene tutte e tutti, potrà diventare l’ennesimo baluardo della lotta femminista, di quella contro la violenza di genere. Per il momento però sarebbe giusto che ogni donna, e ogni uomo, se la tenesse ferocemente tra i propri pensieri e tra le proprie lacrime, intrise di incredulità, senso di impotenza, ma soprattutto, orribile sensazione di déjà-vu. Perché quasi ciascuno di noi, questa storia, l’ha vissuta sulla propria pelle. Quasi ogni donna si è sentita piccola, sbagliata, debole, umiliata e impotente. Quasi ogni uomo si è sentito fragile, tradito, sminuito, perduto, incapace di gestire la propria fragilità.
Ogni donna non solo si è sentita in pericolo, ma lo è stata. Camminando sola lungo una strada isolata, chiusa in una stanza con “l’uomo della vita”.
Sembrerebbe una canzone piena di odio e rabbia, quella di Mia Martina, finché non si arriva alla strofa finale: “amore, gli uomini che cambiano sono quasi un ideale che non c’è. Sono quelli innamorati come te.”
Lo stesso amore, la stessa fragilità.
Ha ragione Francesco Piccolo, che su Repubblica scrive: “perché quanto più al maschio verranno sottratte arroganza e supremazia, sicurezza e predominio, tanto più si sentirà fragile; e quanto più si sentirà fragile, tanto più combatterà disperatamente. La fragilità ci rende spaventosi, noi maschi; tanto quanto ci rende spaventosi la violenza; soltanto nei maschi queste due caratteristiche sono legate.”
Era l’11 novembre quando si sono perse le tracce di Giulia Cecchetin. Questo vuol dire che, con oggi, sono dieci giorni di impetuoso rumore. Il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, si tornerà a fare un rumore giusto, ma assordante e confuso.
Ciò significa che ci restano tre giorni per chiuderci in un silenzio stampa e riflettere davvero.
Riflettere sul fatto che ancor prima di impartire ad un uomo lezioni di sessualità e affettività, bisognerebbe insegnargli la fragilità. Bisognerebbe istruirlo su come accettarla, assecondarla, e perfino apprezzarla.
Noi donne fragili ci siamo nate, la nostra forza, dalla notte dei tempi, è questa.
Per gli uomini questa è una possibilità nuova, spaventosa e disarmante, ingestibile.
Educhiamo gli uomini ad essere anche fragili. Poi possiamo ricominciare con le etichette, le lotte, i fiumi di parole, le sentenze, e i post su Facebook. Prima però facciamo innamorare nostro padre, nostro figlio, nostro fratello, l’uomo della nostra vita, della sua spaventosa fragilità, perché basterebbe questo per renderlo diverso.
di Susanna Russo