“Tollerare l’intolleranza è codardia”: così dice Ayaan Hirsi Ali, ex parlamentare olandese di origine somala che si batte contro il fanatismo islamico, l’infibulazione e la sottomissione delle donne. Una frase, la sua, che non potrebbe essere più attuale oggi, dopo l’attentato di Londra.
Nessuno vuole mettere in dubbio la libertà di religione. Nessuno vuole negare il diritto delle persone a praticare la religione in cui credono, Islam compreso. Quel che invece andrebbe vietato è la prevaricazione degli altri in nome della religione e la predicazione dell’odio. In Italia assistiamo sempre più al diffondersi di comportamenti integralisti senza che la politica faccia nulla di concreto a tal proposito.
Anche a Milano è sempre più facile, per fare un esempio, vedere per strada donne completamene coperte (viso compreso) dal niqab, abito tradizionale di alcuni paesi islamici che viene imposto alle donne al fine di tutelare il “diritto” del marito. Ed è proprio questo il punto: possiamo permettere, in Italia, che un uomo imponga uno strumento di sottomissione alla moglie? Perché permettere l’uso del niqab (o del burqa) non significa, come certa politica radical-chic vuole credere, permettere alle donne di scegliere liberamente, ma significa permettere a padri e mariti di imporre alle loro mogli questo vestito. O pensiamo davvero che una donna libera di scegliere deciderebbe di coprirsi completamente, annullando la propria personalità, magari in un’afosa giornata di agosto? Lasciano quindi molto perplessi certe prese di posizione di persone “di sinistra” o addirittura “femministe” in difesa del niqab. Nei paesi islamici le donne che si battono per i loro diritti (a costo, spesso, della loro vita) chiedono l’abolizione del velo. Certe radical-chic europee, invece, dall’alto dei loro salotti in centro, difendono l’oppressione maschilista scambiandola per “libera scelta” delle donne.
Proprio a Milano, poi, abbiamo un caso che sarebbe ridicolo se non fosse preoccupante: l’elezione in comune, nelle fila del PD, di una consigliera islamista. E si noti che ho scritto “islamista” e non “islamica”. Il problema, infatti, non è il fatto di credere in una religione, ma il fatto di ispirarsi a essa nelle proprie scelte politiche, magari pensando di imporre a tutti le proprie idee morali e religiose. Che sia proprio un partito che si definisce “democratico” a candidare e far eleggere una rappresentante dell’islamismo, che tutto è tranne che democratico, suona davvero assurdo. Sumaya Abdel Qader, la consigliera milanese, ha, dietro, le associazioni islamiche e islamiste e, anche se ufficialmente aderisce alle idee del PD, abbiamo qualche dubbio sulla sua laicità e sulle sue idee riguardo a temi importanti come i diritti delle donne e delle minoranze.
Certo, il PD la difende, facendosi forte del fatto che lei è stata votata nelle primarie. Ma possiamo davvero giustificare qualunque scelta con questa scusa? Un’islamista può facilmente vincere le primarie, potendo contare su un’organizzazione (le associazioni islamiche) che ha i mezzi e i soldi necessari a trovare i voti. E il PD dovrebbe pensarci bene, perché le conseguenze di questa superficialità possono essere gravi. La scelta di un’islamista come rappresentate delle minoranze etniche di fede islamica sposta l’equilibrio del potere interno alle minoranze stesse verso le associazioni islamiste, rendendo gli integralisti più forti e acutizzando il problema. Non sarebbe stato meglio portare in comune una donna islamica laica e davvero democratica? La possibilità c’era. Avrebbero così rafforzato le posizioni più libertarie e democratiche interne alle comunità islamiche. Ma il PD ha scelto diversamente.
E mentre il PD occhieggia agli islamisti e gli altri partiti “di sinistra” sembrano incapaci di ogni presa di posizione, certe destre qualunquiste e fascistoidi cavalcano l’onda per guadagnare facili consensi alimentando l’odio e la paura. Il problema è che queste destre non sono certo più libertarie e democratiche degli islamisti. Rischiamo quindi, per difenderci dall’improbabile insorgere di un regime islamista, di cadere in un regime altrettanto violento. Pensiamo davvero che un regime basato sul fanatismo fascista sia meglio di uno basato sul fanatismo islamico? A me non sembra.
In tutto questo il silenzio delle sinistre e del mondo liberale è assordante e pericoloso. Quando cominceranno a occuparsene seriamente? Quando capiremo che in pericolo ci sono i valori fondanti della nostra società, quei valori democratici e libertari che abbiamo conquistato faticosamente e con lotte sanguinose. È ora quindi di prendere una posizione netta contro ogni forma di intolleranza e di fanatismo. Ma per farlo è necessario, prima di tutto, fare un esame di coscienza e comprendere che non possiamo difendere i nostri fanatismi e integralismi se volgiamo impedire quelli altrui. Dobbiamo, quindi, lavorare per la laicità, realizzando, finalmente, il principio “libera chiesa in libero stato”. Una strada che altri paesi hanno già, almeno in parte, preso. La Francia ha da tempo vietato i simboli religiosi nelle scuole o negli uffici pubblici. Ma la Francia è laica da secoli, mentre noi abbiamo ancora un grande problema di ingerenza della religione negli affari della politica. Prima di poter vietare il velo islamico nelle scuole e negli uffici (come sarebbe giusto) dobbiamo togliere il crocefisso. Perché se pretendiamo di proibire l’espressione delle credenze altrui mentre difendiamo la nostra tradiamo i valori democratici tanto quanto gli islamisti.
Al contempo va garantita la libertà di religione e espressione, ma sempre tenendo presente il limite del rispetto per gli altri e per i valori di libertà e uguaglianza di tutti. La predicazione dell’odio e della violenza non deve essere permessa.
La scelta, se andiamo avanti così, sarà tra regredire verso una società più chiusa e intollerante dalla quale tutti abbiamo da perdere o una società che isola gli intolleranti e difende la libertà di tutti. Quale sia la scelta migliore, mi sembra ovvio.
Enrico Proserpio