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giovedì, 21 Novembre, 2024

FESTA DELLA DONNA? NO GRAZIE. Nessun augurio, ma il ricordo di chi subisce quotidianamente violenza da culture arretrate e deviate

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Ieri era l’8 marzo, la festa della donna. Come i nostri lettori avranno notato nessun nostro articolo celebrava tale ricorrenza. Personalmente continuo a ritenere offensivo festeggiare una categoria di genere che invece cerca l’equiparazione con l’unico altro esistente. Personalmente non capisco chi addita questa ricorrenza a qualcosa che c’entri con il femminismo, e non capisco che necessità ci sia di continuare a volere quote rosa ovunque, come se le donne fossero una minoranza da tutelare attraverso dei rappresentanti istituzionali.

D’altro canto però, ritengo che possa anche essere il riconoscimento delle qualità che più intrinsecamente costituiscono la femminilità, ossia quell’insieme di caratteristiche che distinguono non solo fisicamente un uomo da una donna. L’intensità del sentimento, il cuore, la vanità, la vitalità e la grande sensibilità, tutto ciò per cui per ogni uomo, in fondo, vale la pena vivere. Questo è femminismo, nel parere di chi scrive: riconoscere alla donna le sue vere caratteristiche e il ruolo che grazie ad esse può costruirsi nella società, senza cercare di scimmiottare gli uomini come invece fecero delle grandi femministe del passato (Geroge Sand, Simone de Beauvoir per citare le più grandi).

Quindi come si spiega la mi frase iniziale? Più che festeggiare la donna, e disquisire sul fatto se sia più o meno secondo dottrina femminista, noi vorremmo che in questa ricorrenza si ricordino quelle donne che ancora subiscono le violenze di culture e religioni per le quali la donna è ancora inferiore socialmente e fisicamente all’uomo, e per questo è un dovere per il maschio schiacciarla nel suo angolo, sociale e umano.

Vogliamo che si ricordi la condizione della donna in Iran prima del 1974, e come è poi cambiata dopo la rivoluzione islamica di Khomeini: prima un paese occidentale, florido economicamente e culturalmente, che si avviava a diventare una delle maggiori potenze mondiali, dove la donna seguiva le mode occidentali, minigonna e rock’n’roll. Poi è arrivata la cappa islamica, la sharia, e la donna si è dovuta chiudere e nascondere in un velo che lascia scoperti solo gli occhi, a metà tra un oggetto e un pericolo da nascondere e di cui aver paura.

Vogliamo che si spendano parole contro la pratica dell’infibulazione femminile, molto diffusa in alcuni paesi dell’Africa e dell’Asia, come in Somalia dove la pratica colpisce il 98% delle donne. Mutilazione terribile e dalle gravi conseguenze, sia per la dignità della donna come persona umana, sia per la sua stessa salute, che spesso viene compromessa irrimediabilmente per tutta la vita. Pratica essenzialmente tribale, è stata adottata anche da alcune frange islamiche più fondamentaliste, che vedono uno strumento ulteriore per oggettivizzare ancora di più la donna e il suo corpo.

Vogliamo, anzi chiediamo che in questo giorno si ricordino le 70 milioni di ragazze al mondo che hanno subito il matrimonio in età infantile, e le 10 milioni di bambine che ogni anno subiscono questa forma di violenza e discriminazione. Nei villaggi più sperduti dell’Africa o dell’Asia queste bambine continuano a vedersi privare della loro infanzia e della loro adolescenza, rischiando la morte per le lesioni che subiscono da parte dei loro mariti, o a causa delle precocissime gravidanze.

Vorremmo che questa giornata non sia solo la scusa per regalare una mimosa alle colleghe sul posto di lavoro o alle proprie mogli, vorremo che sia l’occasione per rendersi conto dove la donna è veramente discriminata, e di riflettere sulla condizione di chi subisce quotidianamente discriminazioni, dal padre, dai fratelli o dal marito.

Ieri non abbiamo fatto nessun augurio da questo giornale, oggi vogliamo chiedere alle donne stesse che quelle mimose ricevute ieri diventino il simbolo della solidarietà verso quelle come loro che subiscono quotidianamente violenza, bandiera di una lotta contro quei sistemi culturali che impongono alla donna una stato costante e inevitabile di prigionia e violenza.

Gabriele Legramandi

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