di Gabriele Rizza
Il primo errore potrebbe essere parlarne, di Chiara Ferragni, Fedez e le loro “battaglie” etico – politiche, perché ogni loro presa di posizione, prima che una ricaduta sulla società, ha un risvolto sulla reputazione del loro brand, e quindi su contratti, immagine, sponsor e tutto ciò che il mainstream porta economicamente in dote, in modo diretto o indiretto. Errore in cui è caduto nei giorni scorsi il senatore Maurizio Gasparri, noto per ergersi a pop quando non è popolare, ipotizzando una loro entrata in politica. Il risultato poco onorevole per il senatore, è stato quello di farsi chiamare “Gaspy” dalla coppia. Già qui potremmo chiudere l’analisi sulla “politica influencing” concludendo che chi nei “botta e risposta” usa un soprannome per sminuire l’interlocutore è a uno stadio di infantilismo, maleducazione e di contenuti messi in secondo piano, proprio sulla scia dell’evoluzione politica dei giorni nostri.
Però i Ferragnez vantano 35 milioni di follower, e dalla pandemia in poi hanno abbracciato sempre più temi con sfumature politiche: dal sostegno al ddl Zan, alle accuse sulla gestione dei vaccini da parte della Regione Lombardia, dalla richiesta di Conte di sensibilizzare sull’uso della mascherina, alla distribuzione in bici di alimenti agli indigenti (e chissà perché, con il logo dei caschi ben in vista, ma non chiamiamolo sponsor, altrimenti siamo invidiosi e togliamo valore alla beneficenza). Cause lecite, perché se Fedez vuol sostenere il ddl Zan è libero di farlo, è però il “politica influencing” che porta immaginari e nuovi modi di comunicare e intendere le questioni del nostro tempo: l’influencing in politica funziona se la propria battaglia è rivolta contro qualcuno, come Fedez contro Pillon sulla famiglia. Andare contro qualcuno enfatizza la lotta, la rende più chiara, specie per un pubblico di giovanissimi come il loro, ed è adatto alle immediatezze delle stories, di certo non luogo di ragionamento politico. Inoltre, gli influencer fanno delle battaglie delle immagini, che per loro necessità devono essere anche trendy e facili, alla pari delle grandi campagne dei brand, di cui gli influencer sono carne pubblicitaria volontaria, spesso insieme ai loro figli. E infatti, le idee degli influencer non puntano a gruppi o a creare comunità, come le pubblicità si rivolgono al consumatore, in questo caso di diritti presentati in veste di desideri. Perché richiamare il desiderio di status, desideri e voglia è la summa delle loro influenze.
Dunque, perde terreno sempre di più la politica. Gli influencer scavalcano i partiti e forse anche i leader politici nell’opinione pubblica, perché quest’ultimi sono immischiati nel potere e non godono della purezza data dagli sponsor mainstream, e così i cittadini hanno più fiducia negli influencer, che peraltro hanno avuto un successo immacolato e politicamente corretto. C’è un altro lato del ponte che sorregge l’eliminazione della politica dalla politica: la moda dei tecnici al governo. Se l’influencer ha successo per la nomea di purezza, stile e tendenza, il tecnico ha successo per la competenza e il curriculum. La politica resta fuori, con le sue interminabili discussioni, riflessioni e mobilitazioni, perché hanno fallito tutti, anche il tempo della gioventù in politica è finito con il fallimento dei Cinque Stelle. Il tempo mediato del novecento lascia il passo all’immediatezza del nuovo millennio, perché fondato sul singolo e non sui legami.