di Martina Grandori
Si chiama 10 Rivers 1 Ocean l’ultima grande impresa – progetto dell’esploratore italiano Alex Bellini, un primo passo verso un movimento nuovo, un viaggio verso la consapevolezza su cosa sta accadendo da decenni e sullo stato di salute degli oceani. La mission è chiara, raccontare a famiglie, alle scuole, ai nonni e ai piccoli cosa accade alle tonnellate di plastica riversate nei dieci fiumi più inquinati al mondo, ovvero il Niger, il Nilo, l’Indo, il Gange, il Mekong, il Fiume delle Perle, lo Yangtze, il Fiume Giallo, l’Hai He e l’Amur, e che a loro volta vengono poi riversate negli oceani in tali quantità da generare isole di detriti, la più grande è Great Pacific Garbage Patch, composta da triliardi di pezzi di plastica che anno dopo anno continua a crescere, oggi misura un milione e seicentomila km², galleggia tra le sponde della California e le isole Hawaii. Perché come ormai si legge da mesi, non esiste un Pianeta B, non c’è più tempo e soprattutto tutti, ma proprio tutti, dobbiamo darci da fare. Non esiste un essere umano in grado di sopravvivere a cambiamenti climatici come quello che stiamo vivendo e che porta via tutte le risorse del pianeta. Bisogna diventare nella piccola quotidianità degli eco-guerrieri, l’effetto Greta Thunberg, icona del movimento collettivo schierato contro il climate change, è troppo dirompente per far finta di niente. Alex Bellini nei suoi viaggi ha battuto molti angoli remoti della Terra – ha remato in solitaria attraverso due oceani per oltre 33.000 km, camminato sulle rotte polari per 2.000 km e corso lungo i sentieri più disparati per un totale di 10.000 km -, ha spalancato gli occhi su questa urgenza del mondo. Una presa di coscienza ineluttabile dopo aver constatato il disastro causato dalla plastica, catastrofi segnano cuore e animo. Non lasciano indifferenti. Tutto questo diventa più di una sfida con se stesso. La sua sua vita diventa un viaggio con rotta verso la consapevolezza e la sensibilizzazione, da padre si preoccupa sulla crescente e allarmante dissociazione fra mondo naturale e società, è ormai dimostrato che esiste una relazione tra le malattie mentali e la mancanza di natura. Per salvare il pianeta bisogna costringere o convincere incentivando l’opinione pubblica? Si chiedeva poco tempo fa il quotidiano francese Libération. La risposta è inequivocabilmente la seconda opzione.Ed è così che l’esploratore lombardo da’ vita a10 Rivers 1 Ocean, progetto a cui lavora da più di un anno e che si è concretizzato questa estate con la missione sull’isola Great Pacific Garbage Patch. Partenza dal Gange, assemblando una zattera con materiali recuperati lungo le sponde del fiume, direzione Great Pacific Garbage Patch, non un’impresa avventurosa fine a se stessa, ma una missione più nobile per far sapere al mondo che la tecnologia non può sostituire l’ecologia, che l’uomo ha bisogno della natura per sopravvivere, che bisogna andare a guardare dove il problema ha origine e bisogna educare al cambiamento. Ogni singola, piccola azione verso il rispetto per l’ambiente fa la differenza. È per questa mancanza di consapevolezza che siamo arrivati oggi ad avere mostri come il Great Pacific Garbage Patch, frutto dell’inquinamento della plastica riversata dai fatidici dieci fiumi negli oceani, colpevoli del 90% della plastica presente. Navigando questi fiumi-spazzatura, Bellini riflette su quali siano i limiti oggettivamente invalicabili e quali le invece le soluzioni disponibili, promuovendo in tutti noi un nuovo senso di responsabilità e la voglia di agire per una causa universalmente condivisibile.In Italia, nel nostro piccolo, nei limiti di ancora tantissima disinformazione fra le masse, ci stiamo impegnando. L’estate 2019 è all’insegna del diffondersi delle spiagge plastic free, progetto promosso da Generazione Mare con l’intento di liberare i litorali italiani dalla plastica, in pole position i volontari del WWF.Alex Bellini con questo progetto mostra non solo lo stato di degrado dei fiumi, in particolare del Gange da cui è partita la sua missione ma ripercorre il lungo tragitto che ogni pezzo di plastica non riciclata fa fino al mare – circa otto milioni di tonnellate all’anno- per giungere poi ad accumularsi nei punti di convergenza delle principali correnti oceaniche, in tutto sono cinque i grandi agglomerati al centro degli oceani. Ma facciamo un passo indietro nel passato. Chi si accorse di questa oscenità?I primi ad avvistare questo disastro ecologico furono nel 1988 dei ricercatori americani della National Oceanic and Atmospheric Administration, l’attenzione dei media fu subito forte, merito anche della testimonianza del navigatore statunitense Charles Moore, che durante una traversata verso Los Angeles si ritrova con la sua barca a vela circondato in un ammasso di contenitori di plastica e di altri rifiuti di produzione umana. È l’oceanografo Curtis Ebbesmeyer, a cui però si deve il nome dell’isola Garbage Patch. Ebbesmeyer aveva ricostruito le dinamiche delle correnti del Pacifico seguendo i movimenti di oggetti galleggianti persi dai cargo come giocattoli di plastica a forma di paperelle e scarpe da tennis Nike. Nel 2013 il giovane olandese Boyat Slat crea la fondazione Ocean Cleanup con l’obiettivo di ripulire l’isola di plastica, promette di rimuovere il 50% della plastica intrappolata nel vortice del Pacifico del Nord in 5 anni. Ma per la maggior parte della comunità scientifica ritiene che l’operazione non sia efficace. Invece no, perché se ci si sente impotenti e non si reagisce, si perde in partenza. Il Pianeta B non esiste, è arrivato il momento di cambiare. Anche nelle piccole abitudini. Bellini parlerà di tutto questo in occasione dell’Ocean Race Summit, una serie di convegni che esaminano il ruolo centrale delle imprese più virtuose e della società nella lotta all’inquinamento da plastica in mare, a Genova il prossimo 20 settembre. Siamo tutti invitati all’ascolto.