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sabato, 21 Settembre, 2024

EMILIO FEDE: “CONCENTRIAMOCI SU CIÒ CHE CONTA, IL GIORNALISMO VERO, TESTIMONIANZA DI VITA VISSUTA, E L’AMORE DEI NOSTRI CARI”

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di Susanna Russo

Nato nel Giugno del 1931 a Barcellona Pozzo di Gotto (ME), è giornalista, scrittore e conduttore televisivo. Comincia giovanissimo l’attività nella carta stampata collaborando con Il Momento – Mattino di Roma. Lavora poi per la Gazzetta del Popolo a Torino, dove diviene inviato speciale. Comincia a collaborare con la RAI nel 1954 come conduttore per Il circolo dei castori con Enza Sampò e Febo Conti, passando così dalla carta stampata alla televisione. Il rapporto con la televisione di Stato diventa esclusivo dal 1961.

Inviato speciale in Africa per otto anni, realizza servizi in 44 Paesi nel periodo della decolonizzazione e dell’inizio delle guerre civili. Dal 1976 è per 5 anni conduttore del TG1, il 28 febbraio del 1977 è il conduttore della prima edizione a colori, dal 1981 lo dirige per due anni.

Accetta l’offerta di ReteA, dove fonda e dirige il TgA, il primo telegiornale nazionale privato della televisione italiana. Nel 1989 passa alla Fininvest di Silvio Berlusconi, dapprima come direttore di Videonews, poi di Studio Aperto. Nel 1992 lascia la direzione di Studio Aperto, poiché aveva già accettato la direzione del TG4, il nuovo telegiornale di Rete 4. Nel luglio del 2004 conduce il TG4 in diretta da Nassiriya per portare la sua solidarietà ai militari italiani colpiti dall’attentato del 12 novembre 2003.

Nell’agosto del 2012 approda al canale del digitale terrestre Vero Capri, dove incomincia a condurre una rubrica settimanale di attualità politica ed economica intitolata Attualità con Fede.

Tra il 2013 è il 2014 è direttore editoriale del quotidiano La Discussione. Nel corso della sua vita ha pubblicato diversi libri, l’ultimo dal titolo Che figura di merda, Giraldi Editore.

Ha recentemente pubblicato un libro dal titolo Che figura di merda. Vuole parlarcene un attimo e dirci cosa l’ha spinta a scriverlo?

«Mi hanno spinto a scrivere questo libro la mia vocazione giornalistica, tutte le esperienze che ho vissuto nel corso della mia carriera, ma anche la mia fortuna di appartenere ad una famiglia straordinaria. Ne ho vissute tante, ad esempio in Africa, dove ho realizzato servizi in 44 Paesi, dove sono stato ferito, catturato ed imprigionato; e nonostante ciò ho voluto continuare a portare avanti la mia personale lotta contro il razzismo, e a testimoniare la fame che si soffre in quelle terre. Dopo tutte queste avventure, ho capito quale sia l’obbiettivo dell’esistenza, che è anche sintetizzato nella seconda pagina del mio libro: saper perdonare.»

 

Il libro in questione si apre con il racconto del suo funerale, a cui partecipano le persone che hanno fatto parte della sua vita. Ci pensa spesso alle tracce che lascerà sulla terra?

«Lascerò sulla terra la storia di un ragazzino messinese e della sua fuga di nascosto dal padre, brigadiere dei carabinieri, per andare nella zona dell’Etna, per poi tornare in classe e raccontare ai suoi compagni di banco ciò che aveva visto. Quella voglia e quella necessità di raccontare ciò che vedo ha caratterizzato tutta la mia vita e soprattutto la mia carriera. Quel che lascio è anche una fondazione, che ancora non è nata, ma per cui ho già predisposto tutto, che per 15 anni garantirà uno stipendio di tutto rispetto a coloro che sono malati e non possono curarsi.»

 

Sono passati 40 anni dall’incidente di Vermicino, in cui perse la vita il piccolo Alfredo Rampi. Lei lo trasmise in diretta: che cosa si ricorda di quel tragico evento?

 «Quel giorno arrivai in redazione, feci una prima riunione chiedendo quali novità ci fossero. Quando mi informarono dell’incidente, costrinsi l’unico cronista che c’era in redazione a raggiungere il luogo. Quando passo in quella zona, ancora oggi sento l’eco perfetto della preghiera di massa di tutte le persone disposte intorno al pozzo. Quel giorno mi chiamò il Direttore Generale della Rai per dirmi di interrompere la diretta, perché intasavamo tutte le altre reti, contemporaneamente mi chiamò il Segretario del Quirinale per esortarmi a proseguire, perché in quel momento il Presidente della Repubblica aveva avuto notizia che Alfredino si sarebbe salvato, e io decisi di non interrompere. Il momento in cui sembrava ce l’avessimo fatta è stato solenne, regnava un silenzio assoluto, tutto sembrava irreale. Ancora oggi quando ci ripenso prego per lui. Devo dire che sono rimasto un po’ deluso per non essere stato citato nelle varie commemorazioni televisive, ma concentriamoci su ciò che conta: il giornalismo vero, testimonianza di vita vissuta, e l’amore dei nostri cari.»

 

Sono passati anni da che lei era uno dei protagonisti del panorama giornalistico italiano. Cosa ne pensa del giornalismo odierno? Ci sono ancora giornalisti validi e degni di stima?

«Se dicessi che oggi non ci sono più giornalisti validi sarei un bugiardo, e subentrerebbe la presunzione. Certo, assisto poi anche a spettacoli poco decorosi di giornalisti che parlano di guerra in modo superficiale. La prima volta che io ho incontrato Gheddafi, m’è parso di conquistare mezzo mondo. Dopo essere stato a Nairobi posso dire di essere vivo per miracolo, dovevo prendere un aereo che alla fine ho perso, e che è esploso pochi secondi dopo il decollo. Per questo adoro gli inviati, quelli che si muovono, che non si fanno fermare da niente, che vanno dove si spara. Rispetto a quando era il mio mestiere, il modo di fare giornalismo è cambiato profondamente, anche solo per la tecnologizzazione. Detto ciò, la serietà di un giornalista, e di un inviato, è data dalla capacità dall’affrontare il proprio lavoro senza temere la morte, ammirando chi la morte la rischia davvero, di continuo, nel silenzio più totale.»

 

Lei è stato inviato in Africa per 8 anni. Che ricordo ha di quel periodo?

«Sono tanti i ricordi legati a quel periodo. Inizialmente venne con me mia moglie, Diana de Feo, giornalista anche lei, che ha voluto seguirmi. Siamo arrivati in una delle zone in cui più si soffre la fame, ci hanno accolto in una capanna, ci hanno sfamato con l’injera, un pane etiope, e durante la notte per scaldarci, mentre vedevamo sfilare davanti a noi gli animali, vi erano i mattoni ardenti. Mi ricordo di quando mi hanno catturato e buttato in una cantina, sono stato messo in salvo grazie all’intervento di una donna del luogo. Il ricordo più forte rimane comunque quello dell’esplosione dell’aereo appena decollato da Nairobi, è stata questione di un attimo, ma ha causato la morte di 150 persone, e tra queste avrei dovuto esserci anch’io.»

 

Nella conduzione del TG4 si è sempre mostrato molto severo, a tratti intransigente, con le persone che lavoravano per lei. Lo era anche con sè stesso, e anche nella sua vita privata?

«Ero più che severo. Al ritorno dalla missione a Nassiriya, in occasione di una cerimonia a Gorizia, il Generale Dalzini mi invitò a salire sul palco e disse: “ad un amico caro, che ha sfidato la morte per raccontare, va la bandiera della missione”. Severo? Lo fossi stato ancora di più…! Ma è servito, perché i colleghi di allora ancora oggi mi cercano, mi trovano, ci troviamo, questa è la verità.»

 

Le faccio un’ultima domanda. Forse non tutti lo sanno, ma nel 2014 le è stato comunicato che, a causa di un tumore al pancreas, le sarebbero rimasti solo 6 mesi di vita, solo in seguito le analisi si sono rivelate sbagliate. Come ha vissuto quella diagnosi?

 «Pregando, come ho sempre fatto. Alla vigilia di Natale del 1981 andai al Vaticano e dissi al Pontefice: “sa, io ho paura di non saper pregare”. Lui mi rispose che quella mia paura era già di per sé una dimostrazione del fatto che sapessi e potessi farlo. Da allora non ho mai smesso, e ancora oggi prego, soprattutto per mia moglie, ciò che di più importante ho in questa vita.»

 A questo punto Emilio Fede si commuove, e scusandosi, mette fine alla telefonata.

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