di Susanna Russo
Elena Russo Arman, attrice e performer, si forma alla Scuola del Teatro Stabile di Torino, diretta da Luca Ronconi. Debutta ne L’affare Makropulos di Capek per la regia di Ronconi accanto a Mariangela Melato che nel ’99 le conferisce il Premio Eleonora Duse come attrice emergente dell’anno. Importante l’incontro a Milano con il Teatro dell’Elfo, dove nel ’94 Elio De Capitani la sceglie per il ruolo della Ragazzina nel Roberto Zucco di Koltès. Da allora il rapporto con la compagnia milanese si intensifica fino a quando nel 2003 entra a farne parte come socia.
Diretta da Bruni e De Capitani, le sue interpretazioni spaziano dagli autori classici a quelli contemporanei.
Da diversi anni collabora con la chitarrista Alessandra Novaga con la quale realizza diversi spettacoli fondati sul rapporto parola-musica firmandone la regia.
Nel 2018 fonda, insieme a un gruppo di attori, Invisibile Kollettivo con il quale mette in scena due best seller: L’avversario di Emmanuel Carrère e Open di Andre Agassi.
È autrice di progetti originali: da La Palestra della felicità di Valentina Diana, a The Juniper Tree dai fratelli Grimm, passando per Leonardo, che genio! per il quale ha progettato e realizzato un grande libro pop up.
Il 21 Maggio 2021, in occasione del Festival lecite/visioni, ha portato in scena al Teatro Filodrammatici Gentleman Anne.
Hai appena partecipato al Festival “Lecite visioni”, che si è tenuto al Teatro Filodrammatici di Milano. Che cos’è illecito in teatro?
«Eh, bella domanda…in teoria nulla dovrebbe esserlo. Lo spazio scenico è lo spazio dell’immaginario, dell’inconscio, che è poi anche lo specchio della nostra vita, e quindi uno spazio di riflessione e un modo di sperimentare ciò che nella vita lecito non è, così da rielaborarlo e metabolizzarlo. Poi certo, molto dipende dal punto di vista da cui vengono narrati gli eventi, deve sempre esserci rispetto per gli argomenti che vengono trattati, ma non dovrebbe esserci una censura. La scena dovrebbe essere lo spazio della libertà, anche perché il luogo introspettivo in cui vengono indagati passato, presente, e futuro, merita di goderne.»
Quali sensazioni hai provato, e quali sono stati i tuoi pensieri, quando sei tornata a recitare per e con il pubblico?
«È stato molto emozionante. Benché io non mi sia mai fermata, perché ho avuto la fortuna di continuare le prove a porte chiuse, la prima sera col pubblico è stata abbastanza scioccante. Abbiamo portato in scena Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, eravamo già immersi nel buio, la compagnia era dietro il sipario pronta a cominciare, e un frammento di secondo prima che si aprisse il sipario, il pubblico si è lasciato andare in un applauso liberatorio ed emozionante. Ecco, per noi che eravamo immobili nella nostra attesa, quello è stato come un grande abbraccio, ci è venuta la pelle d’oca e ci siamo commossi. È stato un momento di sospensione forte e bellissima. D’altronde questo lavoro è in larga parte fatto di corpi, di presenze fisiche e anche la presenza del pubblico sprigiona un’energia ineguagliabile; per questo posso dire che si è trattato proprio di un’emozione fisica.»
A proposito del “corpo d’attore”, nel corso della tua carriera hai recitato anche per la radio; cosa significa mettere da parte il corpo e investire tutto sulla voce?
«È un’arma a doppio taglio. Per certi versi sembra più facile, perché attraverso voce e microfono hai la possibilità di ottenere degli effetti e di trasmettere certe emozioni, a volte è come sussurrare direttamente all’orecchio dello spettatore. Però in effetti il corpo è comunque compromesso, diventa anzi quasi una gabbia e finisce per muoversi anche nella sua staticità; sotto questo punto di vista è una difficoltà, è come avere un pezzo in meno. In ogni caso devo dire che il lavoro radiofonico, così come la semplice lettura interpretativa, mi hanno sempre gratificata molto, anche perché concedono molto spazio alla fantasia.»
Dopo una pandemia quali sono le tue necessità di attrice e regista? E quali sono invece, secondo te, quelle del pubblico?
«Quelle di riprendere la normalità, necessità che penso riguardino più o meno tutti gli ambiti in questo momento. Piano piano ci si sta avvicinando, anche se devo dire che eravamo piuttosto preoccupati di quella che potesse essere la risposta del pubblico. I teatri sono luoghi molto sicuri, ma effettivamente finché non si vivono non lo si può sapere; nonostante ciò la risposta è stata molto buona, anche per quanto ho potuto apprendere dai miei colleghi. È quindi chiaro che l’esigenza principale sia proprio quella di riappropriarci della nostra normalità, poter vivere di nuovo gli spazi teatrali con quell’idea di ascolto, condivisione e comunità. Posso aggiungere che il periodo di lockdown è stato per me anche un periodo di grande nutrimento: mi sono dedicata ad attività di cui di solito non mi posso occupare. Di sicuro tutto questo nutrimento verrà fuori e, anche inconsapevolmente, sarà messo a disposizione della scena.»
Ci sono stati dei momenti, durante il periodo di chiusura, in cui ha pensato che tutto fosse perduto?
«Forse non in modo così definitivo, però un pochino sì. Più che altro ho temuto che non saremmo più tornati a fare le cose come prima, e forse in parte è anche così; basti pensare ai saluti, e ai momenti di condivisione vissuti fuori dal teatro dopo lo spettacolo, ora ne siamo completamente privati. Poi c’è tutto un problema più ampio legato all’aspetto economico, che riguarda tutte le strutture che in seguito a questa pandemia non riusciranno più a far fronte alle perdite che hanno avuto, e quindi a riaprire, e questo è molto triste. C’è da dire che questa situazione ha mobilitato il Parlamento Culturale e i lavoratori dello spettacolo, che hanno fatto di tutto per veder riconosciuti i loro diritti, piccola nota positiva in questo tragico periodo.»
Sei una delle colonne portanti del Teatro Elfo Puccini di Milano, che cosa ti ha dato questo Teatro, e cosa hai dato tu a lui?
«Beh, mi ha dato tantissimo. Io ho riconosciuto in quella struttura e in quella tipologia di lavoro, di compagnia, qualcosa che desideravo e avrei voluto realizzare per me. Ho sempre avuto il sogno di far parte di una compagnia con degli amici, dei compagni di corso. Quando sono arrivata io, loro stavano già portando avanti il progetto. È stato bello perché appena sono entrata mi sono dedicata al lavoro con passione e dedizione, e sono stata accolta e sostenuta. Ho avuto dei ruoli stupendi, mi è stato dato il mio spazio sulla scena, e quando ne ho sentito l’esigenza, mi è stata data anche la possibilità di lavorare come regista, possibilità di cui godo ancora oggi. Che cosa ho dato io non lo so. Spero di aver portato un’energia nuova, diversa dalla loro. Quando sono arrivata il gruppo era già costituito e forse io sono riuscita a contribuire con una voce nuova.»