di Mario Alberto Marchi
È la domanda che ci poniamo tutti: cosa ci porterà fuori dalla crisi post covid?
Le risposte, per ora, sembrano essere in linea più con approcci emergenziali, che con veri progetti; il difetto non conosce colore politico.
Il governo mette cerotti con bonus, prestiti e rinvii. L’opposizione alza la posta, ma nel medesimo solco: chiedendo più soldi e azzeramenti di obblighi fiscali, che comunque costituiranno un debito che – prima o poi – andrà compensato.
Il fatto è che nessun settore della vita pubblica resta facilmente preda del panico, quanto l’economia. Un fenomeno che, sebbene comprensibile (le aziende devono far quadrare i conti e gli stipendi, alla fine del mese devono uscire), alla lunga svela la debolezza di un sistema capitalistico che non ha più una visione, un progetto, ma vive solo di necessità e di risultati del giorno.
È probabilmente il ruolo della finanza ad avere contaminato così l’economia. Dalla visione produttiva, ci si è ripiegati su una sorta di economia speculativa, di scalping dell’impresa, con il risultato di massimizzare i successi ma perdere completamente l’orientamento quando si tratta di riprogettare, come nel caso della crisi improvvisa e profonda che stiamo vivendo.
Che non sia una questione di lana caprina, lo dimostra il fatto che a porsi il problema sia addirittura il World Economic Forum, mettendolo al centro del dibattito sull’attualità dell’economia globale.
A parte alcune considerazioni quasi filosofiche, ad esempio sull’approccio creativo e sullo spirito di iniziativa, è interessante soprattutto l’analisi che viene fatta sui parametri di misura dell’economia. Hilary Sutcliffe, direttore dell’organizzazione Socialinside, che si occupa di studiare i processi innovativi in campo socioeconomico, rompe gli schemi, affermando che “Il PIL misura le cose sbagliate. Misura la ricchezza e ignora la sua distribuzione. Non riesce nemmeno a registrare i costi umani e finanziari del capitalismo, il benessere sociale, il degrado ambientale e i costi per la salute sociale, mentale e fisica delle innovazioni. L’insoddisfazione per il PIL è come parametro sicuro è ormai diffusa e sono in fase di sperimentazione molte alternative, incentrate sul benessere delle persone e del sistema sociale: ad esempio gli indici di sviluppo umano e di sviluppo sociale delle Nazioni Unite, le metriche WellBeing”.
Il principio è che “ciò che viene misurato viene gestito”, quindi se le misurazioni sul fronte economico trascurano parametri giudicati importanti, questi inevitabilmente sfuggiranno alla pianificazione.
In realtà il “superamento del pil” non è tema nuovo; anche in Italia è stato affrontato, col progetto BES, un’iniziativa congiunta del CNEL e dell’ISTAT, che considera 12 dimensioni, articolate in 130 indicatori, come ad esempio la salute, l’istruzione, l’ambiente, la qualità dei servizi. Si tratta – pero’ – di parametri ancora troppo vaghi, innanzi ai quali il caro, vecchio PIL continua ad essere preponderante.
Forse, questa crisi che continua ad essere “al buio”, sarà l’occasione per un nuovo passo, che oltretutto ci renderebbe meno dipendenti da certe aritmetiche imposte, dai cosiddetti “mercati”, dalla finanza internazionale, delle burocrazie sovranazionali.