di Gabriele Rizza
Torniamo a parlare con Angelo Giarda, Professore Emerito in Diritto Processuale Penale e avvocato penalista, delle criticità del sistema giudiziario penale italiano e del regime carcerario, ancora indietro, anche nei contenuti, rispetto alla Convenzioni europee che fanno parte del nostro ordinamento. L’occhio non poteva poi essere rivolto anche ai tempi che cambiano e quindi al potere dei media
Quali sono i punti nevralgici in cui il sistema giudiziario italiano è indietro rispetto alle Convenzioni europee e internazionali?
«L’Italia, nel corso degli anni, ha sottoscritto molti trattati internazionali che hanno però carattere di sovranazionalità, quindi al di sopra della Costituzione o almeno alla pari. Dobbiamo fare i conti con delle Convenzioni europee, che contengono delle norme importanti: la più importante è nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sottoscritta in Italia nel 1950, fino ad arrivare al Trattato di Lisbona del 2009 e alla Carta di Nizza del 2007. Partendo da qui, una delle norme che non c’è nella nostra Costituzione, ma che c’è in queste Convenzioni europee, è la presunzione di innocenza: nella Costituzione italiana l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, quindi vi è una considerazione di non colpevolezza che non equivale nel contenuto alla presunzione di innocenza. Nel nostro ordinamento, la presunzione di innocenza figura soltanto nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ove si dice che ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. Questa disposizione è molto più garantistica. È un punto importante perché, dalla presunzione di innocenza, tutte le funzioni e i ruoli del processo penale devono essere rivisitati secondo un’ottica più garantista rispetto a quella che ora viene presa in considerazione; per esempio quando vi sia un dubbio o un’incertezza sulla responsabilità di un soggetto, il risultato di quel procedimento deve essere sempre un’assoluzione o una sentenza di non luogo a procedere, perché bisogna con delle prove accusatorie superare la presunzione di innocenza».
Oltre la formazione del processo, ci sono delle criticità riguardo il sistema penitenziario? In particolare per quanto riguarda il carcere ostativo e il 41 bis
L’ordinamento penitenziario va rivisto sotto molti punti di vista. Ad esempio, torno con il distinguere chi è sottoposto a custodia cautelare, da chi sconta una pena detentiva definitiva. La restrizione della libertà ha significato se si ritiene che, anche dall’interno del carcere, l’imputato possa condizionare le attività di indagine del pubblico ministero, anche se bisogna rispettare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dove afferma che una restrizione non può ledere la personalità e lo stato di normalità, ad esempio le carceri devono rispettare certi spazi. Per quanto riguarda la restrizione della libertà per l’esecuzione della pena, dobbiamo capire che la sua finalità è molto precisa: la pena deve puntare al recupero della personalità e deve tendere alla rieducazione del condannato. La Convenzione europea sostiene chiaramente che l’esecuzione della pena deve rispettare certi principi fondamentali, soprattutto quello di rispettare il senso di umanità, allora bisogna chiedersi se il carcere duro sia compatibile con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo».
Alla luce di questo, è però lecito contestualizzare le finalità, soprattutto se si pensa al fenomeno mafioso?
«Certamente. Dobbiamo considera che le organizzazioni criminali si pongono in contrasto con l’organizzazione dello Stato, per questo si sono fatti degli adeguamenti per evitare che questo contrasto avvenga. Se la finalità è combattere la criminalità organizzata, è una finalità di carattere costituzionale, non è una semplice iniziativa di un governo, è un’esigenza fondamentale dello Stato che deve difendersi da queste organizzazioni, non in contrasto con delle garanzie, ma proprio con lo Stato. È chiaro che poi gli istituti vengono calati nel sistema dell’ordinamento penitenziario, e non ho difficoltà a ritenere la legittimità di certe restrizioni della libertà finalizzate ad impedire che si consolidi un ordinamento alternativo a quello dello Stato italiano».
Oggi non si è condannati solo dai tribunali ma anche dai giornali. Anzi, per i media si è già colpevoli con quando inizia un processo. È un problema che a livello giuridico è stato affrontato? Fughe di notizie parziali, possono andare a ledere i diritti dell’uomo?
«Tutte le carte dei diritti dell’uomo, europee e internazionali, sono tutte orientate alla limitazione della propalazione di notizie che riguardano l’attività di indagine. Quando una persona è sottoposta ad un processo mediatico è già condannata prima che il processo venga svolto, è una delle grandi necessità di modifica del nostro costume: molti giornalisti mi dicono che se non fanno così, non vendono i giornali. Che questa scelta di propalazione sia fatta per esigenze aziendalistiche mi fa paura, perché vuol dire che il nostro sistema di civiltà che è ancora molto indietro. Sono tantissime le persone che si sono suicidate per il solo fatto di aver visto il loro nome diffuso in giro per il mondo. La presunzione di innocenza è un valore culturale e non solo giuridico».