Il caso di un italiano la cui popolarità ha sconfitto l’oblio e guadagnato l’eternità, conquistando il cuore e i ricordi di intere generazioni: Totò de Curtis, il principe.
di Francesco Manfredi, LaCritica
Alle tre di notte era solito addormentarsi.
Quella notte di aprile del lontano 1967, Totò de Curtis, decise di farlo per sempre. Lasciando una pesante eredità che nessuno riuscì a cogliere negli anni a venire.
Ancora oggi simbolo dello spettacolo italiano, Totò era il teatro, il cinema. Un artista poliedrico che sapeva adattarsi in ogni campo venisse messo alla prova. Il principe della risata sapeva ricoprire ruoli drammatici, comporre storie e poesie.
E soprattutto, ha saputo donare al proprio personaggio l’eternità nei cuori e nei ricordi di intere generazioni future, poiché ancora oggi è riconosciuto come il più grande comico e artista di tutti i tempi.
Monumenti, vie, scuole e teatri sono dedicati alla sua memoria. E la sua tomba è in assoluta la più visitata dagli italiani che non mancano di lasciargli in dono un fiore, dei dolci, dei biglietti e anche una preghiera. Perché per alcuni e, soprattutto per la sua Napoli, è un santo. Forse dovuto anche a quel lato profondamente umano che lo portava a essere immensamente caritatevole, sempre pronto ad aiutare le persone bisognose sostenendole non solo economicamente.
Leggende sul suo conto si tramandano di padre in figlio.
Totò che si incarica di aiutare una famiglia a sostenere le spese necessarie a curare una bambina.
Totò che si accorda con una trattoria per saldare i conti dei pasti di una vecchietta senzatetto. Totò che a volte tornava nelle vie del suo rione natale a infilare banconote da diecimila lire sotto le porte di casa degli abitanti. Totò che lasciava laute mance ai lavoratori e che aiutava ospizi e orfanotrofi. E tante altre storie come queste.
Nato nel 1898, inizialmente, Totò era Antonio Clemente. Figlio di una relazione clandestina fra la madre Anna Clemente e il nobile Giuseppe de Curtis. Solo in seguito, Totò fu riconosciuto anche dal padre. Cresciuto in condizioni disagiate, il piccolo non ebbe una forte vocazione scolastica. Amava osservare le persone, imitarne i movimenti e gli atteggiamenti. Le smorfie e i modi di parlare. Già da piccolo, quindi, aveva in sé quella che sarebbe divenuta poi per lui il suo lavoro, la sua vita: la recitazione. Una carriera che iniziò solo a seguito dell’esperienza militare e volontaria della Prima Guerra Mondiale.
Le prime esperienze artistiche furono difficili per lui, fino a quando, un impresario crebbe nel suo talento. Giuseppe Jovinelli. Da quel momento, Totò iniziò la scalata nel mondo artistico, teatrale e cinematografico poi, che lo portò a essere quello che in futuro divenne: un mito. Una leggenda che esplose nella sua magnificenza solo a seguito della sua morte, come lui stesso aveva predetto
In Italia bisogna morire per essere apprezzati. Vedrai, quando sarò morto capiranno. Anche i registi di fama che oggi mi evitano, si pentiranno di non aver lavorato con me
Forse esagerava nel vittimismo Totò, poiché già in vita era parecchio amato e osannato non solo dalla gente comune ma anche dagli altri attori colleghi.
Tante furono le opere realizzate e tenute in teatri, i film e le apparizioni in televisioni che Totò, addirittura, iniziò ad avere problemi di vista dovuti alle luci di scena.
Ciò lo costrinse ad allontanarsi dal mondo del teatro ma non dalla sua passione che continuò ad allevare nei set cinematografici. Fra i tanti insegnamenti che Totò lasciò al suo pubblico e ai posteri, quelli velati in una poesia da lui magistralmente composta e raccontata. Forse la sua più celebre, quella più profonda: ” ‘A livella “. Rende omaggio alla ricorrenza del 2 Novembre, Totò, per affrontare in chiave ironica il tema della morte.
Una poesia che vede protagonisti due ombre nella notte di due defunti di estrazione sociale differente. Un marchese e un netturbino casualmente sepolti l’uno accanto all’altro.
Totò assiste incredulo a una discussione animata nella quale il nobile si lamentava di essere stato messo a fianco del suo vicino, evocando le sue nobili origini.
Si ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie…appartenimmo à morte
Termina la poesia, ricordando al marchese che dinnanzi alla morte non c’è apparenza e finzione di cariche, ceti sociali che dividono fra loro gli esseri umani.
Dinnanzi alla morte siamo tutti uguali.