di Angelo Portale
Diventare discepoli di Cristo non vuol dire porsi al riparo da eventi difficili. Possiamo però avere la possibilità di risparmiarci le ferite che ci auto-creiamo con la mancanza di consapevolezza e discernimento. Molte croci, infatti, siamo noi stessi a costruirle con le nostre scelte poco consapevoli, condizionate da quell’egoismo narcisistico che è il nostro vero nemico. Diventare discepoli di Cristo vuol dire andare dietro di lui, fidarci della strada che ha percorso lui. Con quale presunzione possiamo pensare di sapere, noi, cosa è meglio per noi, più di lui?
Il Vangelo di questa domenica ci chiede di amare i nostri nemici ma di odiare\rinnegare noi stessi. Che vuol dire? Quelli che noi consideriamo nemici esterni, gli altri, in realtà, in qualche modo, anche quando la loro intenzione è volutamente negativa verso di noi, ci fanno sempre un servizio. Un servizio alla nostra crescita, alla conoscenza di noi stessi. Le persecuzioni degli altri sono sempre una prova che prova la nostra fede e il nostro amore: quello totale come quello di Cristo. Il vero nemico di noi stessi siamo noi stessi quando viviamo e scegliamo sotto il dominio di quello che San Paolo chiama «L’uomo vecchio». Non possiamo dirci discepoli se per un po’ ci fidiamo di lui ma “per l’altro poco” pretendiamo di essere noi i maestri. A Pietro, che ha preteso di fargli da maestro, lo rimprovera chiamandolo Satana. C’è un piano di salvezza, per l’umanità intera e per ciascuno di noi, che noi non possiamo conoscere subito fino in fondo. O ci fidiamo di lui o ci fidiamo di noi stessi. La fede o è totale o non è fede.
Chiedendoci di rinnegare noi stessi, Cristo non ci chiede di annullarci come persone dotate di libertà, intelligenza, volontà, ma di rinnegare, cioè negare-dire-no a quella parte di noi che non è autentica, che non corrisponde alla nostra identità più profonda, che è corrotta, che non sa amare o perdonare, che è pilotata dagli interessi dell’io egoico e narcisista. La chiamata a prendere la croce non svilisce la chiamata alla gioia, specifica del Vangelo. La gioia vera, infatti, non viene dalla mancanza di difficoltà ma dal sapersi amati da Dio e dal poter amare gli altri. C’è un cammino di purificazione da fare, un cammino di crescita, di consapevolezza, necessario per insegnarci ad amare. Dura tutta la vita. Ogni giorno siamo chiamati a dire no a tutto ciò che in noi non è discepolo di Cristo. Non è la vita in sé a farci soffrire ma la nostra reazione ad essa, la nostra resistenza\non accettazione serena degli eventi. Prendere la croce significa assumere responsabilmente la situazione del presente, qualunque sia. Assumere responsabilmente il presente significa assumerlo con fiducia, propositivamente, senza pretese, senza lamentele, senza vittimismi. Tutto è grazia, cioè gratuita possibilità per crescere nell’amore e nella conoscenza di noi stessi, se abbiamo fiducia in Dio. Tutto, invece, può trasformarsi in disgrazia se verso Dio nutriamo sospetto. Ricordiamoci che la fonte di ogni sospetto verso Dio viene dal serpente.
“Seguire” significa esattamente, etimologicamente, “andare dietro”. Questa forma di essere discepoli non ci depaupera nella dignità del nostro essere persone, anzi! Dobbiamo capire profondamente e accettare, una volta per tutte, che noi non siamo Dio. Noi siamo figli e la nostra dignità è assolutamente e inesorabilmente legata al nostro Padre. «I suoi progetti su di noi non sono mai di sventura ma sempre di salvezza». La croce è sempre fonte di salvezza, salvezza dal nostro io egoico e narcisista. Le croci che la vita permette sono sempre a misura, funzionali per liberarci dal nostro io. Solo la non accettazione le fa diventare insopportabili. La croce è sempre «il giogo dell’amore», cioè lo strumento che ci aiuta a camminare sulla strada del dono di noi stessi agli altri, a Dio, alla vita, a noi stessi. Sì, anche a noi stessi perché è la croce che ci permette di amare noi stessi in modo vero. Per amare noi stessi dobbiamo prima rinnegare noi stessi.