Scrive un teologo: «Non ci si libera da soli, ma insieme. In questo senso gli altri non sono un limite, ma un dono, perché sono fonte di promozione e di autopercezione. Vivere è convivere. Insieme e soli: sono i due poli di una sana vita comunitaria e anche di coppia. Chi vuol vivere la comunione senza la solitudine è in balia di avide e illiberali compensazione, chi cerca la solitudine senza la comunione sprofonda nella vanità, nell’autoinfatuazione che non gli permette di crescere».
Crescere è una forma di “aumentare”, un crearsi, ri-crearsi, un generare, un ri-generarsi. Non si aumenta se non si buttano giù i vecchi confini che sì danno sicurezza ma l’evoluzione non permettono.
Crescere è cambiare, rimodellarsi, darsi e ri-darsi forma continuamente. È doloroso, a volte terrorizza e paralizza ma altra possibilità non c’è. Crescere è partorirsi giorno dopo giorno. Non c’è parto senza doglie. È il dolore, in un certo senso, la tassa da pagare per crescere. E non si cresce da soli, si cresce insieme. La paura a volte assale ma può essere sconfitta. Deve essere sconfitta. Guardare la paura e non con gli occhi della paura è la cosa migliore che possiamo augurarci in questi casi.
Molto acute, a tal proposito, le parole del teologo Bonhoeffer che indicano in modo saggio la giusta alchimia tra solitudine e compagnia: «Chi non sa stare da solo si guardi dal cercare la comunione. Non farà altro che far male a se stesso e alla comunità. Chi non ama stare con gli altri, si guardi dallo star solo». «L’incontro con l’altro è fecondo quando spinge a separarsi, a vivere da soli. Non può e non deve essere un incontro “colonizzatore” o “espropriatore” o “uniformante”. L’incontro deve essere rispettoso dell’altro: lasciargli la libertà, renderlo più libero, più se stesso, più separato».
Ogni relazione è senza ombra di dubbio crescita: morte dell’io e vita del noi. Bisogna trovare il coraggio di saper morire, di disarcionare l’io arroccato su se stesso che non vuole lasciarsi spiazzare dalla vita e dall’altro. «La soggettività è infatti originariamente non un pour soi (per sé), bensì un pour autre (per altri), che vive nell’orizzonte della prossimità e in virtù della prossimità», scrive il filosofo Levinas.
L’homo clausus (cioè l’uomo “chiuso” che si autocondanna, per paura, ad una vita solitaria) è una figura antropologicamente falsa, perché l’io si fa nell’altro. La relazione viene prima dell’io. È la relazione il vero vivere. Dobbiamo fare di tutto per non cadere in questo tranello, per vincere la paura di amare e, ancor di più, quella di essere amati, di essere importanti per qualcuno.
Il filosofo Mounier affermava che «Per l’essere umano esistere è esporsi agli altri ed entrare in comunicazione con loro». Entrare in vera comunicazione è creare comunione. Creare comunione è creare unità. Creare unità è unirsi. Unirsi è aprire il proprio cuore e scegliere liberamente di porsi-accanto all’altro, permettere all’altro di porsi-accanto a noi, accettare che anch’egli possa “rischiare” per noi, con noi.
Questo è l’augurio che faccio a me e a ciascuno dei miei lettori.
di Angelo Portale