di Angelo Portale
Nessuna sincera “confidenza” umana nei confronti di Dio può lederne la santità. La santità di Dio è rendersi familiare, a dispetto di tutti quelli che l’associano non al suo essere Padre ma al suo essere terribilmente santo tanto da risultare irraggiungibile; logicamente non da un punto di vista morale (che è banale solo a pensarlo), ma da un punto di vista della familiarità, dell’intimità, della confidenza. La confidenza non toglie a Lui la sua sacralità né in noi diminuisce il senso del sacro.
Il sacro, con Gesù, è diventato cura. Non è altro. Non più.
Dopo Gesù, la “tremendità” di Dio è tutta nel Suo essere ormai definitivamente trasparente e vicino. Dio si rivela tutto dedizione, tutto accoglienza, tutto passione, tutto salvezza. La Sua misteriosa trascendenza non è più legata all’arbitrarismo di un agire divino da temere, che da un momento all’altro può scaraventare sciagura o salvezza, e per il quale è sempre preferibile “non scherzare con Lui”, ma proprio a questa familiarità: poter scherzare familiarmente come figli, perché stanno bene con il loro Padre. Questa potrebbe essere la paradossale incomprensibilità di Dio: si avvicina talmente tanto da farsi uomo. E noi, non avremmo mai potuto immaginare una tale disponibilità, un tale avvicinamento.
«Gesù incoraggia la frequentazione disinvolta di Dio» e sferza tutti coloro che la censurano in nome di una sovranità tanto alta quanto non degna di Dio, ancora di più di un Dio che è Padre. La santità di Dio è dunque la sua prossimità all’uomo. Ripetiamolo: è Gesù stesso ad incoraggiarne una frequentazione disinvolta e sincera. Gesù parla agli uomini di Dio Padre, ma parla anche a Dio Padre degli uomini. Gesù è mediatore in tutto tra Dio e l’uomo. Gesù ha mostrato che l’onnipotenza di Dio si manifesta nella continua affermazione dell’altro, fino a lasciarsi annientare e delegittimare, perché il Suo scopo non è stato mostrare la potenza della divinità ma la delicatissima cura della paternità. L’unico riscatto possibile è nell’amore che accetta e attira su di sé la violenza dell’altro, per annientarla lasciandosi annientare. Perciò, il “vero” uomo di fede che si sente salvato, non si auto–identifica come eletto, e non associa tale elezione al fatto di essersi allontanato dai presunti (ai suoi occhi ma non a quelli di Dio) condannati, impuri, idòlatri, colpevoli. L’uomo di fede, che nella sua esperienza ha “toccato” veramente Dio, come l’emorroissa del Vangelo, diventa “occasione di familiarità con Dio” per gli altri, affinché anche loro possano “toccare” Dio, proprio perché feriti e peccatori, e non perché santi e immacolati. Sono i primi che hanno il diritto di toccare Dio non i secondi. Dio non ha nessun tipo di pregiudizio verso i “peccatori”. I “presunti santi” li hanno. Dio non ha la puzza sotto al naso. Ce l’hanno invece coloro che senza nessun mandato si ergono a paladini della morale e dell’ortodossia e considerano queste più importanti delle persone stesse. Ci sono persone, infatti, che hanno un modo di vivere la fede talmente moralista e bigotto, frutto di una loro presunta onniscienza, come se di Dio avessero capito tutto, come se a loro competesse salvaguardare l’ortodossia della dottrina e quindi l’integrità della santità di Dio, che allontanano chi con spontaneità o timidezza cerca di riavvicinarsi a Lui. Non mostrano una esperienza felice e familiare con Dio. A mio avviso, in fondo in fondo, non si sentono salvati. Non hanno gratitudine per Dio. Credono di essersi meritati la salvezza, come gli operai della prima ora, e recriminano contro il padrone che anche a quelli dell’ultima ora dà la stessa paga, corrispondente (simbolicamente) all’essenziale per vivere una giornata…
Per me la salvezza è altro e non è altro che fare esperienza felice di Dio. Un’esperienza felice, non frustrante, non sfruttante, non depauperante della libertà o della dignità. L’esperienza felice di Dio, per me è sentirmi salvato “ovunque mi trovo”, soprattutto quando mi trovo nell’inferno. È questa la buona notizia che sento di voler portare agli altri