di Angelo Portale
La parola “peccato” oggi non va di moda. Dà fastidio, crea inquietudine e paura, non fa sentire liberi. Molti uomini di Chiesa non ne parlano più. Hanno paura di offendere la sensibilità già fragile delle persone (dicono). È meglio usare termini politicamente più corretti, che non urtano troppo l’emotività di chi ascolta (pensano). Ci sono poi quelli che ne parlano come quel frate del film Non ci resta che piangere di Benigni e Troisi quando, a quest’ultimo affacciato dalla finestra, non fa altro che ripetere «Ricordati che devi morire!». Ne parlano cioè mettendo paura, generando inquietudine, pensando di far cambiare mentalità con la paura dell’inferno; ma tutto il bene che viene fatto per paura, quando questa termina, non verrà più fatto.
A lungo andare, quest’ultimo modo di procedere, ha determinato un rifiuto in blocco del messaggio evangelico, rifiuto favorito anche da una forma di (falsa) emancipazione della coscienza, affrancatasi da questo “medioevalismo” (così spesso equivocamente viene chiamato) grazie alle sicurezze che vengono dalla scienza, dalla tecnica, dal (falso) benessere.
Se la prima sfumatura non fa che deresponsabilizzare e lasciare nelle tenebre, la seconda non fa che generare o paura o rifiuto. Possiamo permetterci una prospettiva diversa? Io penso di sì e credo sia quella che maggiormente corrisponda al messaggio di Gesù.
Quando qualcuno mi dice “Non mi piace il termine peccato perché implica che io venga giudicato e ritenuto colpevole”, rispondo: “Sei sicuro che il significato di peccato sia questo? Sei sicuro che l’essere giudicati sia solo allo scopo di scovare in noi la colpevolezza e non per altro?” e aggiungo: “E perché hai paura di essere colpevole, se ritieni di non aver fatto niente di male?”. Quest’ultima domanda meriterebbe una lunga riflessione a parte. Essa dovrebbe prendere le mosse da una celata ma inconfutabile realtà: nascosti dietro i sensi di colpa (a volte) ci sono rimorsi della coscienza per colpe reali, c’è il non volersi prendere veramente la responsabilità nel fare il bene, il non voler\non poter riconoscere\ammettere di aver fatto il male. C’è la manifestazione di un io ancora troppo infantile per dire “Ho le mie responsabilità” e troppo narcisista per ammettere umilmente “Si, ho sbagliato. Non sono perfetto. Posso sbagliare”.
Torniamo a noi. Se è vero che solo la verità può renderci veramente liberi, allora non dobbiamo aver paura di fare verità su noi stessi. Come facciamo a fare verità su noi stessi? Io di solito “uso” il Crocifisso, mi metto davanti a Lui e mi lascio giudicare, mi lascio amare, lascio che quell’uomo in croce “formi” la mia coscienza. Ho fatto esperienza che il giudizio di Dio non è una condanna, non viene fatto per colpevolizzare, ma solo per separare la luce dalla tenebra, il bene dal male; quindi mai per condannare, sempre per amare, solo per salvare. Dio non è venuto ad inseguire i colpevoli ma a cercare i suoi figli, ecco perché possiamo (e ci conviene, e non perché altrimenti ci arriva una punizione ma solo per la nostra pace e crescita) riconoscere serenamente di fronte a Lui le nostre responsabilità nell’aver peccato. Non solo in quanto male compiuto ma soprattutto in quanto bene non realizzato, cioè l’omissione.
[continua nel prossimo articolo]