di Angelo Portale
Il periodo quaresimale giunge alla Domenica delle Palme. La liturgia ci fa leggere la Passione dell’evangelista Marco. Dedico un momento di riflessione ad alcuni versetti di questa lunga lettura. È il momento in cui Gesù si trova nel Getsèmani insieme a Pietro, Giacomo, Giovanni. Marco scrive che Gesù comincia a sentire paura e angoscia. Subito dopo riporta le sue stesse parole: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Gesù vive umanamente e intensamente tutto il dramma e l’angoscia di questo momento. Vorrebbe poterne fare a meno, manifesta la sua paura al Padre, ma si abbandona a Lui. Chiede ai suoi tre amici di vegliare con lui ma non riescono: «I loro occhi si erano fatti pesanti». Forse, dico forse, anche loro erano talmente tanto angosciati da non essere capaci di vigilare. I loro occhi, il loro sguardo, non reggeva il peso della situazione e il loro corpo preferisce estraniarsi con il sonno. Gesù richiede loro compagnia e presenza ma comprende compassionevolmente tutta la loro fragilità. Gesù rimane solo. Si vive da solo quel momento di angoscia mortale, terribilissima, intensissima, nerissima: entra nella lotta, prega più intensamente, «il suo sudore diventa come gocce di sangue che cadono a terra». Così scrisse Luca che era un medico-fisiologo, nel suo Vangelo, sinottico a questo di Marco. Si trattò di “ematoidrosi”, disturbo che provoca la sudorazione di sangue o un misto di sangue e sudore a causa della rottura di capillari associati alle ghiandole sudoripare. Può essere causata da momenti fortissimi di stress dovuti a violentissime emozioni, soprattutto quella della paura quando diventa terrore. L’unica cosa che riuscì a rasserenarlo fu chiamare “papà” Dio padre e abbandonarsi a Lui che, per amore dell’umanità, gli chiese di percorrere la via dell’innocente deriso, oltraggiato, ucciso. Forse solo così Dio padre avrebbe potuto mostrare la sua innocenza e spezzare l’inganno “del Dio geloso e cattivo” seminato nel cuore dell’uomo dal serpente. È un mistero tragico, ma delle volte la vita apre solo un unico sentiero, per il nostro bene e per quello di altri. Ci lascia liberi di percorrerlo, con accettazione e consapevolezza o con rifiuto, ma non ci lascia liberi di percorrerne altri. Si chiama necessità. È un concetto che si usa per parlare di ciò che non può essere diversamente da come è: «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?», disse di sé stesso Gesù mentre conversava con i discepoli di Emmaus! Chi di noi, in parte o in toto, non ha vissuto gli stessi sentimenti di Gesù? Chi di noi non si è sentito solo, in momenti in cui pensava fosse stata necessaria la presenza delle persone care, degli amici? Noi che pensavamo fosse necessaria la loro presenza, smentiti invece da qualche misteriosa necessità e abbandonati a noi stessi, al nostro terrore, a un Papà alla quale poter dire, dover dire, perché soli con Lui, perché senza altri interlocutori: «La mia anima è triste fino alla morte». È così che il momento più terribile di solitudine e paura può diventare il momento di incontro più autentico con noi stessi, con la nostra forza interiore, con la fedeltà di Dio e pronunciare, per il nostro bene, «Non la mia ma la tua volontà». Ci sono momenti in cui dobbiamo abbandonare le nostre forze e rimetterci totalmente alla vita che, comunque, malgrado tutto, mai sfugge dalle mani al buon Dio.
La vita, in tutti i sensi, viene sempre dalla fiducia. Col tuo dolore, sii gentile. Ha sempre qualcosa da dirti. È lezione non punizione. Perciò abbi più fiducia nella vita, sempre. Perché è Dio il suo amante.