di Angelo Portale
Il filosofo torinese Luigi Pareyson, sullo stile pascaliano, fa una sostanziale differenza tra il Dio dei filosofi e il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, ovvero il Dio vivo dell’esperienza religiosa. E se per il primo potrebbe essere possibile adottare concetti come causa, sostanza, ecc., cioè è assolutamente fuori luogo quando si tratta del Dio personale dell’esperienza religiosa. D’altra parte egli si chiede quanto interesse possa avere un Dio freddo, paralizzato in un concetto, statico e puramente ontico, tipico di una speculazione filosofica, che già a parer di Pascal non valeva un’ora di fatica. «Il Dio della religione è altra cosa […]», scrive il nostro autore. È il Dio al quale si dà del tu, che si invoca, si prega e che si può anche bestemmiare e maledire. Questo per il filosofo torinese è il Dio autentico.
Detto ciò sarebbe sconveniente ed errato concludere che la filosofia non possa e non debba occuparsi di Dio. Deve farlo, ma solo nella misura in cui, abbandonando la forma di pensare oggettivante e dimostrativa della metafisica eccessivamente razionalista, si affida ad un tipo di pensiero adatto a penetrare l’esperienza religiosa. Essa dovrà chiarirne i significati e trarne dei sensi universali validi per tutti o, meglio, sensi che possano suscitare interesse per tutti, credenti e non credenti.
La riflessione filosofica sull’esperienza religiosa sarà una ermeneutica del mito, inteso come unico modo per narrare tali fatti e verità, unico ed eccellente strumento a carattere rivelativo. In questo modo il discorso filosofico su Dio è di tipo indiretto, cioè è una interpretazione della nostra esperienza della divinità, perché «Il nostro dovrebbe essere non un discorso su Dio, ma da Dio, e qui dobbiamo ascoltare la voce dei profeti […] Quindi per il Dio dell’esperienza religiosa, assai più che per i necessari concetti filosofici, appaiono adeguati i simboli della poesia e le figure antropomorfiche della Sacra Scrittura […]».