di Stefano Sannino
Quale sia il segreto della felicità è forse una delle domande che ognuno di noi si fa più comunemente nell’arco nella sua via.
Che sia perché si abbiano problemi sul lavoro, piuttosto che nella sfera affettiva, la felicità pare essere qualcosa di sempre più lontano dal nostro modo di stare al mondo.
Nessuno, dopotutto, sa quale sia il segreto della felicità. C’è chi dice che stia nel denaro, c’è chi è convinto che stia nell’amore, c’è chi sostiene, ancora, che la felicità dipenda dalla carriera.
Ed in questo caleidoscopio di opinioni e pensieri nessuno ha mai ragione, nessuno ha mai torno.
Eccoci dunque ad inseguire sempre più soldi, sempre più amore, sempre posizioni lavorative più elevate, sacrificando ogni volta parti della nostra vita e del nostro essere per ottenere ciò che pensiamo sia la via per la felicità. Come in un gioco forza togliamo all’amore per dare alla carriera e poi togliamo alla carriera per dare all’amore e cosi in un processo ad libitum.
E se invece il segreto della felicità non stesse nel correre dietro a sempre nuovi beni materiali o soddisfazioni carnali, ma stesse invece nella medietà e nella misura?
Cosa accadrebbe se per un istante mettessimo da parte la nostra arroganza, il nostro arrivismo lavorativo, la nostra naturale propensione a voler essere a tutti i costi i primi in ogni campo?
Forse che davvero, solo così, troveremmo la felicità?
Questa è, in soldoni, proprio la tesi di Aristotele (384 A.E.V.- 322 A.E.V.) nel suo testo l’Etica di Nicomaco, meglio noto come Etica Nicomachea.
Secondo lo Stagirita, infatti, la virtù è una condizione mediana tra due sentimenti, detti vizi. Laddove l’eccesso sia, tanto in negativo quanto in positivo, nient’altro che una deformazione dell’animo, solo la misura può costituire la virtù e dunque condurre alla felicità. Felicità che Aristotele chiama εὐδαιμονία (eudaimonía, transl.), parola greca composta dal prefisso εὐ (eu, bene) e dal sostantivo δαίμων (daímon, demone) e traducibile dunque come «buon demone».
Ma cosa significa che per essere felici bisogna avere un “buon demone”? Significa semplicemente che bisogna ascoltare la propria voce interiore e perseguire ciò che amiamo con misura ed accuratezza, senza mai sfociare nella tentazione dell’eccesso vizioso.
L’ἀρετή (areté, transl.), parola che traduciamo con l’italiano “virtù” era un concetto strettamente collegato a quello dell’ εὐδαιμονία, tanto che l’opera di Aristotele mette questi due concetti in un rapporto di co-dipendenza tale da renderli difficilmente analizzabili individualmente.
La felicità senza la virtù etica, almeno nell’antica Grecia, era qualcosa di inesistente.
In un’epoca dove dunque siamo abituati a relazionarci al nostro successo individuale come all’unica strada per raggiungere una felicità interiore; in un contesto sociale dove l’idea della carriera o di uno stipendio più alto giustifica ogni forma di arrivismo e di mancanza di rispetto verso quei colleghi che vivono le nostre medesime emozioni e situazioni; in un momento storico dove l’eccesso viene celebrato come forma di liberazione individuale e non come veicolo del vizio (inteso in senso filosofico, nda), le idee di Aristotele potrebbero apparire quantomai antiche e fuori dal tempo.
Ma chi ci garantisce che questo titanico sforzo ad avere sempre di più sia la strada giusta per ascoltare il proprio “buon demone”? Non potrebbe essere che l’invito della nostra coscienza non sia rivolto all’eccesso ed al ricercare sempre di più, ma guardi invece alla tranquillità della medietà e del senso della misura etica e comportamentale?
La risposta, forse, nessuno ce la darà mai; intanto, l’insegnamento di Aristotele continua a riecheggiare la sua lezione di misura e di virtù. Varrebbe dunque la pena, forse, fermarsi ed ascoltarlo.