di Martina Grandori
“Ci vuole etica anche in cucina” sentenzia Viviana Varese, una stella Michelin dal 2011, chef che dal Salento e dalle sue leccornie è migrata verso l’umido e nebbioso nord, Lombardia per l’esattezza.
Secondo l’artista dei fornelli, la cucina a chilometro zero è una bugia, soprattutto quando si lavora in una città come Milano. L’importante è la qualità della materia prima che non necessariamente deve arrivare da dietro l’angolo.
Il fenomeno del chilometro zero è sicuramente la risposta di tante famiglie, single, coppie e ristoratori che in questi ultimi decenni hanno visto cambiare in un modo radicale la produzione e la distribuzione degli alimenti. Colpa maggiore, sicuramente, la globalizzazione e la grande distribuzione che hanno fatto quasi svanire le piccole realtà agricole, un tempo la normalità per Italia e non.
L’import ed export hanno poi contribuito a snaturalizzare ancor di più le nostre realtà contadine, molto del raccolto viene mandato all’estero e il concetto di stagionalità del cibo è quasi ormai sconosciuto, in fondo tutti oggi mangiamo dodici mesi all’anno avocado, zucchine e ciliegie. Il tutto anche a discapito dell’ambiente: se 60 anni fa i cibi percorrevano solo pochi chilometri, dalla produzione alla padella, ora possono viaggiare su navi container o nelle stive di aerei per migliaia di chilometri prima di finire nei negozi.
E’ indubbio che questi cambiamenti abbiano un impatto ambientale sulle emissioni di CO2 e di smog, sul consumo energetico e così via. Appare tuttavia molto più difficile trovare un modo semplice per valutare quantitativamente questo impatto.Da qualche anno fra i più attenti ai consumi etici, ha cominciato a diffondersi la filosofia dei“chilometri percorsi” dal cibo, chiamati food miles nel mondo anglosassone, che potremmo anche tradurre come i chilometri alimentari percorsi dagli alimenti prima di arrivare sulle nostre tavole come indice per misurare l’impatto ambientale.
In Francia sono le Amap –Associazioni per il mantenimento dell’agricoltura paesana- , commerciano prodotti freschi che sta riscuotendo direttamente dal contadino al consumatore attraverso i panier, cassette con prodotti biologici o biodinamici di stagione. I giapponesi già 40 anni fa avevano dato vita a questa forma di vendita diretta produttore-consumatore, più sana, a basso impatto ambientale e per certi versi economica.
La semplice logica dietro il concetto del chilometro zero è che più un alimento ha viaggiato, più energia ha consumato, più combustibili fossili ha bruciato, più gas serra ha emesso e quindi più alto è l’impatto ambientale e, ovviamente, il cibo è meno ecologicamente sostenibile. Studi recenti però mostrano che le cose non sono così semplici e che i chilometri percorsi non sono un indicatore sensato dell’impatto ambientale e della sua sostenibilità.
Recentemente il DEFRA, il Ministero dell’Ambiente e dell’Agricoltura britannico, ha commissionato uno studio per verificare l’utilità del food mile come indice di sostenibilità ambientale, arrivando alla conclusione che un indicatore basato solo sullo spazio percorso non può essere una misura attendibile dell’impatto ambientale totale, per molteplici motivi. Il più banale sta nel fatto che circa la metà del chilometraggio percorso, il 48%, è attribuibile al compratore. Da questo punto di vista è più eco friendly andare una volta sola al supermercato e fare una spesona generale, anziché prendere la macchina più volte.
Ovviamente ci sono associazioni di consumo etico che mandano la spesa a casa con furgoncini elettrici o poco inquinanti, ma è una nicchia. In più la grande distribuzione, continua il rapporto DEFRA, trasporta in modo più efficiente le merci, utilizzando meno autoveicoli pesanti al posto di un numero più elevato di veicoli più piccoli meno efficienti che verrebbero utilizzati da un sistema distributivo non centralizzato. Confrontando l’impatto relativo alla produzione e alla distribuzione di differenti prodotti agroalimentari, è evidente come il trasporto sia rilevante solo per quelli caratterizzati da una filiera “semplice”, come ad esempio l’ortofrutta.
Paradossalmente nell’ambito della distribuzione di carni e formaggi che rispettano una produzione con processi efficienti e poco impattanti è meno dannosa per l’ambiente. Con questo, non è un invito a consumare senza coscienza e senza etica carni, verdure e frutti che arrivano dall’altra parte del mondo, ma è una piccola pulce nell’orecchio. Tutti pensiamo che il chilometro zero sia risolutivo. Invece lo è in parte.Diamo però a Cesare quel che è di Cesare, va’ assolutamente sottolineato che il chilometro zero è un modo per riscoprire la ricchezza della nostra agricoltura, per conoscere la stagionalità e i tempi di madre natura, per riscoprire le origine e la storia di un alimento e non pensare che sia fantascienza il mondo dei frutti antichi. Evviva l’identità territoriale e la cultura. Anche a tavola.