Le offese su Facebook, anche se accessibili solo a pochi iscritti e riferite a persone di cui non viene fatto il nome, possono portare a una condanna per diffamazione. Lo ha sottolineato la Cassazione, che ha rinviato a un nuovo processo un maresciallo della guardia di finanza per aver pubblicato nei suoi “dati personali” la frase “attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo…”.
L’imputato era stato condannato in primo grado dal tribunale militare di Roma a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata. Sentenza ribaltata dalla Corte militare d’Appello di Roma, che lo aveva assolto per per insussistenza del fatto, poiché l’identificazione della persona offesa risultava possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network, non avendo l’imputato indicato il nome del suo successore.
La prima sezione penale della Cassazione ha ribaltato il verdetto, riconoscendo come la frase fosse “ampiamente accessibile, essendo indicata sul cosiddetto ‘profilo'” e l’identificazione della persona offesa favorita dall’avverbio “attualmente” riferita alla funzione di comando rivestita. Tra l’altro “il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico” ma la “consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza anche soltanto di due persone”.
La Critica