“I Servizi segreti scortavano le Br il giorno del rapimento di Aldo Moro”. Enrico Rossi, ispettore di polizia in pensione, punta nuovamente i riflettori su quanto accadde il 16 marzo del 1978 in via Fani, a Roma, quando l’esponente della Dc fu sequestrato e gli agenti della sua scorta uccisi. “Sul posto c’era anche una moto con a bordo due persone. Dipendevano dal colonnello del Sismi. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo”, racconta Rossi.
L’ispettore racconta che tutta l’inchiesta è nata da una lettera anonima inviata nell’ottobre 2009 a un quotidiano e giunta sulla sua scrivania successivamente.
Questo il testo della missiva: “Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente…”.
La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 è da sempre un mistero. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono gli unici colpi verso un civile presente sulla scena del rapimento, l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro.
Marini fu interrogato alle 10.15 di quel 16 marzo. Il conducente della moto – disse – era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò “l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo”.
Rossi si mise sulle sue tracce e incontrò enormi difficoltà: “Non so bene perché ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole che avevo trovato in un sopralluogo. Negato. La situazione si ‘congela’ e non si fa nessun altro passo, che io sappia. Capisco che è meglio che me ne vada e nell’agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni”.
Ma non è finita. “Tempo dopo, una voce amica di cui mi fido – dice l’ex poliziotto – m’informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l’inchiesta incompiuta”.
Rossi ricorda – sequestrò una foto – che quell’uomo aveva un viso allungato, simile a quello di De Filippo: “Sì, gli assomigliava”.
La Critica