di Martina Grandori
Di caro grano se ne parla dall’autunno scorso, a novembre Coldiretti parlava di prezzi alle stelle, un pacco di pasta sullo scaffale del supermercato costava già a settembre 10 volte di più, il tutto a discapito delle finanze dei consumatori. Ed eravamo solo all’inizio della faccenda. Ora, a due settimane dall’inizio del conflitto, il prezzo del grano è oggetto di speculazioni, sale sale per poi scendere dell’8,5%, ma è il pane il prodotto dal prezzo più volatile, è aumentato di 13 volte, sfiorando (al Nord ovviamente) i 9,80 euro al chilo (registrato a Ferrara) per il pane più semplice, mentre al sud, Napoli, si resta sempre entro i 2 euro al chilo secondo l’analisi di Assoutenti. Per produrre un chilo di pane, riporta il documento, occorre un chilo di grano da cui si ottengono circa 800 grammi di farina, da impastare poi con acqua e lievito e un chilo di grano non supera i 40 centesimi al chilo, evidente come a pesare sul prezzo della pagnotta siano di fatto al 90% altri fattori speculativi, fra cui il caro affitti, il costo della mano d’opera e, ovviamente, l’esplosione del costo del gas, del petrolio e in generale della produzione. La probabilità del rincaro di una lunga lista di prodotti a base di grano è concreta: dai cracker, ai biscotti alle gallette di mais ai wafer e ovviamente alla tanto amata e consumata pasta.
Ma il problema delle materie prime non è solo per cibare l’uomo, ma coinvolge marcatamente anche il mangime per gli animali: la maggior parte di quello che si usa proviene dalle zone in guerra e a breve non arriverà più. Con la decisione dell’Ungheria di ostacolare le esportazioni nazionali di cereali, soia e girasole, in Italia è a rischio un allevamento su quattro. Secondo gli allevatori, sono due mesi la finestra di tempo per trovarne altro, poi il tempo sarà scaduto. Tutto ciò a dimostrazione di come questa guerra tocchi tutti, ed è molto più vicina di quanto si pensi.