di Susanna Russo
Filippo Del Corno, è nato nel 1970 a Milano, dove ha sempre vissuto. Dopo la maturità classica, si è diplomato nel 1995 in Composizione al Conservatorio G. Verdi. Attivo come compositore fin dal 1990, ha visto i propri lavori eseguiti da grandi musicisti ed orchestre. Le sue composizioni sono regolarmente presenti nei più importanti festival e teatri della scena internazionale.
Dal dicembre 1997 è docente di Composizione al Conservatorio: dopo gli incarichi ai Conservatori di Torino, Parma e Pesaro è nominato nel 2007 docente di ruolo con incarico al Conservatorio di Trieste e successiva utilizzazione al Conservatorio di Milano. La sua attività didattica lo ha visto anche docente di Composizione alla Civica Scuola di Musica di Milano dal 2002 al 2004 e docente incaricato all’Università Bocconi di Milano dal 2001 al 2007 nel Corso di Laurea in Economia delle Arti e della Cultura. Inoltre dal 1999 al 2008 è ideatore e conduttore per RAI-Radio3 di diversi programmi di approfondimento musicale e culturale.
Fin dall’inizio della sua attività professionale è coinvolto in ruoli organizzativi e gestionali nel campo della cultura e dello spettacolo. Dal gennaio 1993 al gennaio 1998 è composer in residence della Fondazione I Pomeriggi Musicali di Milano, con compiti di assistenza alla direzione artistica. Nel 1997 fonda, insieme a Carlo Boccadoro ed Angelo Miotto, l’Associazione culturale Sentieri selvaggi, per la promozione e la diffusione della musica contemporanea, che guida in qualità di Presidente e codirettore artistico fino al marzo 2013. Dal dicembre 2011 al marzo 2013 è Presidente della Fondazione Milano – Scuole Civiche di Milano, Ente partecipato del Comune di Milano che opera nel campo dell’Alta Formazione. Nel marzo 2013 il sindaco Giuliano Pisapia lo nomina Assessore alla Cultura. Nel 2016 si candida al Consiglio Comunale, ottenendo il maggior numero di consensi nella lista Sinistra per Milano. Successivamente il Sindaco Giuseppe Sala lo conferma nel ruolo di Assessore alla Cultura.
I teatri sono chiusi da ormai un anno, e i lavoratori dello spettacolo vivono in una situazione di precarietà assoluta. Che cosa si sente di dire ai professionisti che lavorano in quest’ambito?
«Io ho sempre sostenuto le ragioni dello spettacolo dal vivo e ho sempre ritenuto eccessiva la preoccupazione per la diffusione del virus nei luoghi di spettacolo: non sono affatto i più pericolosi, ma al contrario, se vengono adottate tutte le norme preventive, l’esperienza non è assolutamente rischiosa, come è invece in altri luoghi. La situazione è sempre più complessa, poiché non si ha una prospettiva certa di ripresa delle attività; per questo motivo io ho sempre sostenuto che sarebbe stato necessario programmare la ripresa in modo non reversibile, così come è accaduto in Inghilterra. C’è da dire che sia Governo, che enti locali come Milano, hanno fatto sentire la loro presenza sostenendo comunque le strutture dello spettacolo dal vivo. Certo è che ci sono diverse categorie di professionisti che sono rimasti esclusi dai provvedimenti di ristoro, e questa è una lacerazione sociale difficile da ricomporre, ed è sicuramente in cima alle priorità di chi amministra i territori.»
Effettivamente vi è proprio un’analisi effettuata da AGIS che dimostra come il rischio di contrarre il virus nei teatri rasenti lo 0. Perché, secondo lei, questo studio non è stato preso in considerazione e assecondato?
«A mio parere questa consapevolezza non è mai arrivata in modo forte alla comunità scientifica. Si tratta di una consapevolezza mai supportata dai media che hanno una responsabilità molto forte in queste situazioni. Si è poi stillata una classifica di quelle che fossero le priorità per il nostro Paese, ed evidentemente il Teatro non è rientrato tra i beni necessari. Purtroppo in Italia, quando c’è da compilare una classifica delle priorità, la cultura, soprattutto sotto forma di spettacolo dal vivo, arriva dopo molto altro. Questo è un tema generale molto preoccupante che interroga direttamente la stessa comunità del mondo della cultura che non riesce a far valere il principio dell’indispensabile funzione pubblica che la cultura ha nelle società democratiche. Aggiungo che quando Draghi si è insediato al Governo, ho scritto una lettera pubblicata dal “Foglio”, in cui ho argomentato come l’assenza dell’esperienza culturale abbia raggiunto il carattere della cronicità. La responsabilità forse è da ricondurre in parte proprio al mondo della cultura, che non è riuscito a sostenere le proprie argomentazioni con sufficiente tenacia, ma prevalentemente ai media che non hanno saputo porre l’attenzione su questo tema.»
Possiamo dire che il nostro Paese, in tema di fruizione teatrale, ed importanza e riconoscimento destinati a questa forma di cultura, sia in una condizione di arretratezza?
«Per quanto riguarda la fruizione dello spettacolo dal vivo nel nostro Paese, non possiamo sicuramente parlare di una situazione di arretratezza, ma la diffusione di questa forma culturale, in Italia, funziona a macchia di leopardo. Nelle grandi città c’è grande vivacità sotto questo punto di vista: a Milano, ad esempio il Teatro è una componente fondamentale della quotidianità. Quello che si è verificato nel nostro Paese è più che altro una desertificazione di presenza teatrale/spettacolare nelle aree interne e nei piccoli centri. Questa sproporzione ha fatto sì che il dibattito pubblico nazionale si sia disinteressato del teatro perché si è valutato che fosse rilevante solo in alcuni contenti sociali ed urbani.»
A questo proposito, ci sono dei modelli attuati in altri Paesi, da cui l’Italia potrebbe prendere ispirazione?
«Per quando riguarda la presenza dello spettacolo dal vivo come componente essenziale della quotidianità il modello più pervasivo è quello tedesco, ma ha ottimi risultati anche quello francese. Il fatto è che bisogna pensare a quale sia la reale funzione della cultura nella società. In Italia, Paese dotato di uno dei più importanti patrimoni artistici e architettonici, la cultura è sempre stata considerata e valorizzata come attrattiva turistica. La funzione principale della cultura è invece quella sociale, permette infatti di aumentare il patrimonio cognitivo della comunità e dà vita a forme di cittadinanza attiva più consapevoli e responsabili; bisogna quindi sviluppare gli investimenti culturali per favorire la partecipazione culturale, e non la valorizzazione turistica.»
Come tutti ormai sappiamo, il Piccolo Teatro di Milano è occupato da quasi 3 settimane. Anche lei è intervenuto ad una di queste giornate di occupazione, e la sua presenza è stata significativa e in qualche modo ha dato ancora più legittimazione a questa protesta. È giusto quindi secondo lei, arrivati a questo punto, occupare un luogo storico di Milano, per far sentire la propria voce?
«Per quando mi riguarda, non condivido l’utilizzo dell’occupazione perché non lo reputo uno strumento consono ed efficace dal punto di vista della dialettica politica. Ma quello che hanno fatto i lavoratori dello spettacolo al Piccolo è ben diverso: si tratta di un’occupazione simbolica. Infatti non è stato interrotto né è stata fatta violenza al processo lavorativo del Teatro, ma si è trattato di abitare uno spazio importantissimo per la nostra città, organizzando anche una serie di iniziative ed attività interessanti e stimolanti. Per questo l’ho considerato un atto politicamente meritevole di attenzione, e non ho avuto nessun problema a partecipare ad una di queste attività. Dopodiché, attraverso quest’occupazione, abbiamo capito che stanno definitivamente venendo a galla temi legati alla precarietà e alle condizioni di sfruttamento dei lavoratori dello spettacolo. La pandemia ha avuto un effetto rivelatore, e ci ha messo davanti ad un’evidenza ignorata per anni: il lavoro dell’attore, come quello del tecnico, dell’attrezzista, del costumista, e via dicendo, non sono occupazioni ad intermittenza, e soprattutto non esistono solo nel momento in cui il pubblico assiste alla messinscena. Questo è il passaggio fondamentale: riconoscere che nelle attività intellettuali, culturali ed artistiche, anche il tempo di studio è un tempo di lavoro, e deve essere riconosciuto e tutelato anche dal punto di vista della dignità. E questo vale anche per molti altri lavori. A tale proposito mi vengono in mente le parole dello scrittore Joseph Conrad: “come faccio a spiegare a mia moglie che, quando guardo dalla finestra, sto lavorando?”»
A suo parere, dopo la situazione pandemica di questi ultimi mesi, che ci ha negato la fruizione di molte forme culturali, o comunque non ci ha permesso di goderne a pieno, ci sarà una ricoperta della cultura, e quindi del Teatro e dell’Arte?
«Vorrei rispondere a questa domanda su due direttrici diverse, una ottimista e una pessimista. Partiamo da quella ottimista: quello che ci è stato segnalato è il dolore che provoca l’assenza del rapporto quotidiano con la produzione culturale. La mancanza di partecipazione culturale ha inferto una ferita che ha fatto avvertire l’importanza della cultura nella vita di tutti noi; lo scopriamo dal fatto che è cresciuto l’unico consumo culturale possibile in questo periodo, cioè quello della lettura. In ambito editoriale assistiamo infatti a dati, non dico rassicuranti, ma che comunque invertono una china di decrescita. La direttrice pessimista si riflette invece nella mortificante designazione dei teatri come luoghi di pericolo. I luoghi della cultura sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a ripartire e questo ingenera una percezione di pericolosità. Ci troveremo quindi davanti ad un grande rischio: ossia che il pubblico meno motivato a frequentare i luoghi della cultura, ne avrà paura. È per questo che a Milano abbiamo lanciato un programma che si chiama “Milano che spettacolo!”, campagna di comunicazione per aiutare i cittadini a non aver paura.»
Ottima analisi, ottima intervista ! Grazie