di Stefano Sannino
ETIMOLOGIA E ORIGINE LINGUISTICA
Il termine ortodossia deriva dal greco ὀρθοδοξία (orthodoxia, transl.) composto, a sua volta, di orthos, giusto o dritto, e doxa, opinione. Linguisticamente dunque, l’ortodossia si auto-definisce come la “giusta opinione” in materia di fede e religione.
La prima cosa che notiamo, dunque, è l’opposizione semantica che l’ortodossia ha con il cattolicesimo: se da un lato infatti “cattolico” deriva dal greco katholikós, universale, dall’altro l’ortodossia non ha nessuna pretesa di assolutismo, identificandosi anzi come una “retta esegesi” e, dunque, identificando anche una “cattiva dottrina”.
È evidente dunque che vi sia una incomunicabilità di base tra questi due sguardi sulla dottrina cristiana, l’uno universalista e l’altro più aristocratico, che rende ogni comunicazione se non impossibile, quantomeno parecchio difficile.
È opportuno, linguisticamente, distinguere tuttavia tra l’ortodossia intesa in senso etimologico come “retta dottrina” e l’ortodossia intesa in senso storico come l’insieme delle Chiese d’oriente di liturgia greca o, successivamente, russa. Nei fatti, il termine ortodosso fu impiegato dalla Chiesa di Roma durante il suo periodo di formazione per distinguere ciò che era “giusto” nell’esegesi delle scritture e ci che invece era “eretico” o “sbagliato”. Con il tempo, però, le Chiese d’Oriente continuarono a definirsi ortodosse, mentre quella romana iniziò ad auto-definirsi cattolica, creando così una spaccatura che si compì con il Grande Scisma del 1054.
Nonostante l’identità cattolica fosse ben definita già dagli albori della storia della chiesa, fu solo nel 1600 (1) che il termine “ortodosso” venne regolarmente impiegato per descrivere l’insieme degli apparati ecclesiastici d’oriente.
IL PATRIARCATO DELLA CHIESA ORTODOSSA
L’organizzazione della chiesa ortodossa risale all’apparato amministrativo dell’Impero Romano d’Oriente. La diocesi, per esempio, era proprio una unità amministrativa romana, che con il tempo è stata traslata nel campo dell’organizzazione ecclesiastica. Altro riferimento laico, con il tempo passato al campo religioso, è il titolo di vescovo, derivato dal greco episkopos, ovvero supervisore. Sono cinque le diocesi imperiali ancora oggi riconosciute aventi importanza superiore (2): Roma, capitale dell’antico impero, Costantinopoli, capitale dell’impero d’oriente, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme.
L’organizzazione pentarchica, dal greco penta (cinque) e árkhō (comando) fu poi sancita dal concilio di Costantinopoli dell’869-870 e ripresa poi dal patriarca Pietro III di Antiochia nell’XI secolo. (3)
1) J. Binns, Le chiese Ortodosse, Edizioni San Paolo, Milano 2005, p.17 2 2) Concilio di Calcedonia, Canone XXVI
3) J. Binns, Le chiese Ortodosse, Edizioni San Paolo, Milano 2005, p. 18
Per quanto concerne il termine patriarcale, esso fu impiegato per la prima volta in un documento del VI secolo, nella diocesi metropolita di Antiochia, in riferimento all’antichissima tradizione biblica che identificava il patriarca come una figura paterna di riferimento e di guida sia terrena che spirituale.
Nel complesso, tuttavia, si può affermare che il mantenimento delle strutture amministrative imperiali nell’ordinamento ecclesiale sia la prova della natura politica e non teologica della chiesa, che da allora si è sempre sviluppata come una struttura a se stante, svincolata dal convenzionale potere degli stati e delle amministrazioni politiche.
L’ESEMPIO DEL MONTE ATHOS
Il monte Athos è uno stato monastico autonomo situato ai confini con la Macedonia.
Il governo autocratico del Monte Athos è un governo monastico, gestito e delegato interamente ai monaci residenti dall’art.105 della Costituzione greca (4).
L’accesso al monte è interdetto, come da dottrina ortodossa, alle donne, ed i pellegrini maschi possono accedere all’aspro percorso che porta alla vetta del monte solo con la guida dei monaci.
Le comunità sono di grandezza variabile ed alcuni monaci residenti vivono da soli in una forma di eremitaggio monastico priva di ogni comfort e benessere materiale. Nella repubblica di Athos si assiste ad una forte collaborazione tra le varie comunità, ciascuna delle quali produce un determinato bene di sostentamento: i fondamenti della vita monastica sono quindi alla base dello sviluppo e del mantenimento di questo piccolo, eccezionale, stato autonomo ortodosso.
Per quanto concerne la parte amministrativa, la repubblica di Athos ha un governo chiamato Ierà Koinóteta, formata da venti rappresentanti dei monasteri presenti, sotto alla quale vi è anche un altro organo chiamato Ierà Epistasìa.
Il monte Athos fa parte di uno stato membro della Comunità europea e pertanto è soggetto alla legislazione comunitaria, sebbene per entrarvi sia necessario uno speciale permesso di soggiorno, della durata di 4 giorni.
PARAMENTI E CLERO
Cattolicesimo ed Ortodossia differiscono anche per l’abbigliamento sacro tipico del proprio clero. Esattamente come per l’amministrazione, anche i paramenti liturgici ortodossi sono diretti discendenti dell’abbigliamento dell’impero romano d’oriente. Si è soliti distinguere tra i paramenti russi e quelli greci, tendenzialmente più semplici sia nelle decorazioni che nei filati.
Per ambedue i casi, tuttavia, il colore oro rappresenta una costante, essendo inserito con filati di qualità superba, che ne garantiscono una lucentezza perenne.
La gerarchia ecclesiale ortodossa è così organizzata (5) :
• Lettore;
• Suddiacono;
• Diacono;
• Presbitero;
• Episcopo;
4) cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Monte_Athos
5) cfr. https://digilander.libero.it/gogmagog1/ortodossia/levestiliturgiche.htm
Ciascun membro consacrato della chiesa ortodossa ha un tipo di paramenti suo proprio, che si arricchiscono con l’aumentare del grado e del ruolo ricoperto all’interno dei patriarcati e delle diocesi.
Gli elementi principali della vestizione ortodossa sono certamente lo sticario, corrispondente alla veste o alla Dalmatica, l’epitrakilion, corrispondente alla stola presbiterale e l’epimanikia, un particolare tipo di paramento completamente perduto nel caso del cattolicesimo, costituito di due fasce di stoffa legate ai polsi, con lo scopo di mantenere le maniche dello sticario aderenti al corpo. Si può comunque affermare che i paramenti liturgici ortodossi siano molto più appariscenti e decorati delle loro controparti occidentali, più semplici e modeste.
Questa ricchezza di decorazioni e questa attenzione ai materiali usati si riflette anche nell’architettura e nelle decorazioni delle chiese ortodosse, in cui l’oro è certamente il colore predominante. Nulla quindi a che vedere con la semplicità delle abbazie o delle chiese in stile romanico, che almeno per un certo periodo di tempo, hanno messo la semplicità della forma e dell’estetica al centro della propria architettura sacra.
LA GIUSTA DOTTRINA
Come abbiamo già avuto modo di vedere, ciò che distingue la pretesa ortodossa da quella cattolica è la convinzione di seguire una “giusta dottrina” che, modernamente, risulta però sempre più antiquata e superata. Laddove infatti la chiesa cattolica è stata capace di aprirsi morigeratamente ad alcuni cambiamenti del tessuto sociale (divorzio et similia), la chiesa ortodossa rimane fortemente critica verso la modernità che, secondo molti ecclesiastici, dipende direttamente dal modo di vivere occidentale. La “giusta dottrina” ortodossa rimane quindi chiusa a temi come divorzio, parità dei generi, omosessualità, eutanasia et similia, dimostrando ancora una volta la propria lontananza da quell’atteggiamento universalista (cfr. etimologia “cattolico”; nda) della chiesa occidentale.
Anche la teologia, a differenza di quella occidentale, non ha subito particolari cambiamenti. Perfino i teologi ortodossi che hanno studiato in occidente, continuano a ritenere che lo scopo dell’ortodossia sia quello di portare avanti la “teologia dei padri” (6) che però, sfortunatamente, ha sempre meno possibilità di vittoria rispetto ai mutamenti sociali contro cui si propone di combattere.
LA TEORIA DELLE IMMAGINI
Siamo tutti abituati, in seno alla nostra cultura cristiana, a guardare le icone sacre all’interno dei luoghi di culto. Non sempre però, l’iconografia è stata tanto popolare.
A partire dall’imperatore Leone III (717-741), infatti, si sviluppò un movimento iconoclasta in seno alla tradizione orientale che ebbe importanti ripercussioni anche sul secondo Concilio di Nicea (7), che si preoccupò proprio di affrontare la posizione iconoclasta per stabilire una dottrina delle immagini adatta alla religione cristiana.
Il movimento iconoclasta credeva che le immagini sacre non fossero in grado di rappresentare il prototipo, ovvero la divinità, e che in quanti tali dovessero essere distrutte.
6) J. Binns, Le chiese Ortodosse, Edizioni San Paolo, Milano 2005, p.102
7) Per approfondire cfr. Luigi Russo, Vedere l’invisibile: Nicea e lo statuto dell’immagine, Aesthetica, Palermo 1997
Secondo alcuni, l’iconoclastia nacque da una convinzione più semitica che greca8 ed in effetti, questa tesi potrebbe essere avvalorata dall’attitudine tipicamente giudaica di non fare immagini di dio. All’interno dell’iconoclastia confluivano tre posizioni all’epoca predominanti:
1. L’ardente desiderio di una religiosità elevata, svincolata dal bisogno umano delle immagini;
2. La posizione monofisita, per la quale era necessario porre attenzione all’unità del Verbo divino, più che alla sua manifestazione umana nella persona di Gesù di Nazareth;
3. Le convinzioni ebraico-islamiche, fortemente avverse ad una cultura delle immagini sacre.
Nel complesso, queste tre posizioni diedero vita ad un movimento di distruzione di tutte le immagini sacre che creò il panico per diverso tempo tra i fedeli cristiani di tutto il mondo. Iconoclastia ed iconofilia si scontrarono strada per strada, casa per casa, chiesa per chiesa, finché la comunità ecclesiale non giunse a sviluppare una dottrina che non lasciasse adito a fraintendimenti. Fu proprio così che si giunse ad una canonizzazione delle immagini sacre che, a partire dal 754, non furono più manifestazioni artistiche dei singoli iconografi, ma bensì canoni prestabiliti atti a veicolare la sostanza e la natura del prototipo rappresentato.
Il seguente passaggio del Panegirico dei Martiri, dovrebbe però aiutarci a comprendere perché il Concilio di Nicea si sia espresso a favore della realizzazione delle icone:
«Se dunque di fronte a noi, o giudici, riprovate in modo irrefutabile la pittura delle immagini, ebbene noi vi libereremo dall’errore e dall’ambiguità a questo proposito -dissero i martiri- infatti, noi non raffiguriamo con forme e figure la divinità, che è semplice ed inafferrabile, né vogliamo onorare con la cera e con il legno la sostanza che è al di là di ogni essere e a tutto preesiste; ma, da quando il primo uomo decadde per la sua trasgressione e fu annientata la potenza ribelle e sfrontata, la natura aveva bisogno di colui che l’avrebbe risollevata; non era capace, infatti, sprofondata sin dal principio, di riprendersi dalla sconfitta con una nuova lotta e di ridarsi alla battaglia, dal momento che il nemico stava sopra a ciò che era caduto, né era possibile che strappasse la vittoria al tiranno, se non con una seconda lotta.»
Con queste parole, Costantino, facendo riferimento direttamente alle parole dei martiri, stabilisce univocamente che le icone non siano a rappresentazione della divinità, quanto dell’ipostasi9 di essa. L’icona è quindi ammissibile perché si configura come una rappresentazione materiale di una sostanza sì divina, ma inferiore rispetto alla divinità stessa.
Dal secondo Concilio di Nicea, le icone si sono diffuse in tutta la cristianità, diventando un’abitudine per chiunque entri in una chiesa ortodossa o cattolica.
Ma arrivare a questo punto non è stato affatto semplice.
Oggi, l’iconografia è una delle attività che rende maggiormente celebri in tutto il mondo i monaci ortodossi, che hanno fatto della rappresentazione della divinità (nel suo aspetto di Figlio e di Mater Dei) non solo un vanto estetico, ma anche una fonte di reddito. La vendita delle icone è infatti uno dei mezzi di sostentamento primario di numerose comunità monastiche, anche all’interno della comunità del monte Athos.
8) J. Binns, Le chiese Ortodosse, Edizioni San Paolo, Milano 2005, p.109
9) cfr. Plotino, Enneadi, qualsiasi edizione
CONCLUSIONI
Per noi occidentali l’ortodossia è spesso qualcosa di lontano, misterioso e dogmatico.
L’attitudine orientale alla tradizione e ad una vita di preghiera e misticismo è qualcosa che l’occidente, con i secoli, ha perso.
D’altro canto, il forte tradizionalismo ortodosso ha reso a dir poco impopolare il suo clero in occidente, specialmente in seguito a certe dichiarazioni da parte dei diversi patriarchi o vescovi.
La sordità dell’ortodossia ai movimenti modernizzatori potrebbe costituire uno dei fattori principali per la sua crescente impopolarità e, conseguentemente, per il crescente allontanamento di numerosi fedeli da questo specifico approccio al culto cristiano.
Nel complesso, la pretesa universalistica del cattolicesimo, pur con i suoi difetti intrinsechi sia sociali che teologici, pare essere -ad oggi- la scelta vincente per la conquista dei fedeli, sempre meno affascinati dal passato, dalla tradizione e dall’ascetismo.
È tuttavia opportuno farsi una domanda: cosa siamo senza tradizione? E quanto del nostro passato (sia esso religioso, sociale o politico) è giusto abbandonare e sacrificare sull’altare del modernismo? A questa domanda di base, pare, pochissime religioni sanno dare una risposta soddisfacente.