“Esistevano le condizioni per una vita appassionata, ma ho dovuto distruggerle per poterle recuperare”
Assumendo tutta la problematica linguistica della neo-avanguardia, Boetti si orienta verso il gioco linguistico che porta ad assumere le parole in forma di enigmi o di accostamento delle assonanze e quindi ad una idea di sperimentazione, che lo accompagneranno fino al 1994, data della sua morte. La dialettica associativa delle parole e delle cose, che presiede ad ogni psicologia della realtà, per quanto filtrata da una visione personale del mondo, nelle sue mille e mille sfaccettature di forma, colori, segni, lo porta ad utilizzare tecniche più diverse, da quelle dei tappeti e degli arazzi, fatti realizzare da brave tessitrici caucasiche, ai “lavori postali”, ai legni, alle biro, agli inchiostri, alle chine su carta, nell’idea che non ci sono regole per fare un’opera d’arte, ma adattamenti tecnici utili a dare corpo al fantasma della mente. La sua vicenda personale mi richiama alla mente quella di Gino De Dominicis, non per analogia ma per opposizione, tutta solare quella di Boetti, approdata alle molteplici mappe del mondo, fatte di bandiere intrecciate tra di loro, in modo da rendere palesi le differenze orizzontali, tra una immensa Groenlandia, per questo ghiacciata e disabitata e una invisibile Italia, per quanto madre di geni e creatori, a partire da quanti come De Dominicis, sembrano incantati dal cubo della propria casa o pensiero della propria stanza, vivendo fra ombre ed incubi della propria solitudine.
Seppure appartenente allo spirito europeo, empirista e ricercatore, testimoniato dalla sua vicinanza a tutta una serie di eretici come Pascali, Fabro, Ontani, Schifano, a cui lo accomunano gli stessi interrogativi che vengono dalle derive di Art&Language, un suo punto di riferimento essenziale è quello di Joseph Beuys, per il suo spirito nomade che lo porta a continui viaggi mentali e reali, per la rottura dell’orizzonte della urbanità europea nelle vaste distese dell’Afghanistan, ma anche nelle metamorfiche civilizzazioni etiopiche, messicane, marocchine, come risorse emblematiche di un suo giro del mondo, infinito, punteggiato da nome e luoghi che diventano ispirazione e forma delle sue opere. Lontane dagli schemi classici della pittura, che Boetti riteneva troppo distanti dalla vita comune, le sue opere sono caratterizzate da continui cambiamenti e ricerche, sia nelle tematiche che nelle tecniche e nei materiali utilizzati. Durante un viaggio in Afghanistan, nel 1971, rimase affascinato dall’antica arte del ricamo a filo di lino, praticata dalle donne locali. Decise quindi di commissionare il lavoro a 500 donne che lo avrebbero eseguito rigorosamente a mano: nacquero così i famosi arazzi che lo hanno reso celebre in tutto il mondo.
In diversi formati, gli arazzi erano suddivisi in griglie in cui venivano inserite frasi e motti inventati dallo stesso artista. Attraverso delle parole apparentemente semplici ma di natura discordante l’artista rifletteva su aspetti di carattere politico, sociale, culturale e linguistico, invitando a sua volta lo spettatore a interrogarsi e fruire attivamente delle opere, senza subirle in modo passivo e disinteressato. In un continuo gioco di doppio speculare fatto di destro e sinistro, di alto e basso, di parole e immagini, rifletteva sulla duplicità della natura umana e della società, tra coerenza e contraddizione. Nell’ambito di una stagione creativa di grande rilievo, qual è quella dell’arte italiana, dagli anni Sessanta agli anni Novanta, la figura di Alighiero Boetti, si connota come quella di una speciale soggettività, che mette insieme la forza poetica dell’espressione con la riflessione teorica sulla possibilità dell’arte di dire qualche cosa di nuovo, dopo tanta storia che va da Piero della Francesca a Malevic. Un relativo pessimismo, il suo, che lo porta ad una accelerazione concettuale della sua posizione, dividendo da sé, ogni fase dell’esecuzione, che può essere fatta da altri, da abili artigiani, da tecnici, perché quello che conta è l’aspetto mentale, quello del pensiero, che permette ad ogni materialità di realizzarsi e di avere un senso, un significato, senza rimanere nella pura oggettività, artigianale. La sua biografia, corrisponde alla progressione del suo lavoro, che parte da una sua endemica romanità, lo fa allontanare fino ad un punto di rottura, quasi da albergatore etnico di Kabul, ma poi lo riporta al momento originario, come avviene ad ogni esploratore che abbia un punto di vista, sappia divagare, sappia sognare, ma non si lasci attraversare dalla deriva.
“Io penso che ogni cosa contenga il suo contrario, per cui l’atteggiamento preferibile dovrebbe essere quello di azzerare i concetti, distenderli, spiegarli; proprio come si può spiegare un foglio di carta, così si può ordinare o disordinare una coppia o una classe di concetti, senza privilegiare mai uno dei due termini contrapposti, ma al contrario cercando sempre l’uno nell’altro: l’ordine nel disordine, il naturale nell’artificiale, l’ombra nella luce e vice-versa…”.
Prof. Pasquale Lettieri
Critico d’arte