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mercoledì, 20 Novembre, 2024

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA FINANZA ISLAMICA COME ESPERIMENTO SOCIALE PER UNA RIFORMA DELL’ATTUALE ORDINE FINANZIARIO RISPETTOSO DEI DIRITTI UMANI.

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Di Enea Franza

È cosa nota che il sistema capitalistico è improntato alla logica della massimizzazione dei profitti e che la finanza sia permeata dal concetto di speculazione. Il capitalismo, come noto, è un sistema economico che riconosce il diritto alla proprietà privata e al suo investimento, sotto forma di capitale, in imprese produttive concorrenti con altre imprese attive sul mercato che operano in libera concorrenza tra loro. Le figure umane principali del capitalismo sono gli imprenditori: questi reperiscono un capitale, proprio o altrui, e lo investono in un’impresa con l’intento di recuperare quanto investito con l’aggiunta di un profitto. 

C’è da dire, anche se la cosa che andrò a dire può dare fastidio a qualcuno, che tale sistema ha permesso (fino ad ora) un consistente consenso sul presupposto che in tal modo si conseguisse un generalizzato benessere sociale, tanto da divenire almeno negli ultimi 40 anni il protagonista incontrastato del panorama globale. Va osservato, in particolare, che il capitalismo che stiamo sperimentando è quello che si è affermato con gli attacchi ai sistemi di welfare, iniziati da Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Inghilterra, che portarono alla progressiva affermazione delle politiche e istituzioni c.d. neoliberiste. Basi del neoliberismo, oggi prevalente in tutto il mondo occidentale, sono gli istituti della deregulation e della privatizzazione dei beni pubblici.   

Per amore di verità, assieme ad un benessere generalizzato, il sistema capitalistico (nelle varie versioni e varianti) (1) ha anche mostrato tantissimi limiti; dal degrado ambientale generale ad un apparente aumento della diseguaglianza economica, che pone pochissime persone al vertice incontrastato del potere economico, finanziario e, in definitiva, anche politico. In effetti, a ben vedere, un sistema di scelta decentrato rende più facile lo scoppio e la diffusione di crisi sistemiche e non sembra essere in grado di tener conto di interessi generali come, ad esempio, la sostenibilità sociale ed ecologica (2). Ma proprio l’inserimento degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile (SDGs) nel programma internazionale per lo sviluppo delle nazioni occidentali (3) ha contribuito, quanto meno, a legare il concetto di crescita a valori di tipo umanitario (4), contribuendo a riaccendere un dibattito sui limiti del capitalismo e della finanza nell’epoca della globalizzazione (5). 

Nel dibattito intellettuale che ha portato a galla le questioni ambientali e sociali il c.d. capitalismo degli shareholder ha lasciato il passo al c.d. capitalismo degli stakeholder, ovvero, ad un sistema di organizzazione delle società in cui le aziende sono orientate a servire gli interessi di tutti i loro stakeholder; tra i principali stakeholder ci sono clienti, fornitori, dipendenti, azionisti e comunità locali (6). 

In effetti, l’idea che è del capitalismo Thatcheriano si è dimostrata inconciliabile con l’impatto che l’attività industriale ha in primo luogo sull’ambiente. Oggi appare sempre più riduttivo sostenere che le società abbiano un solo scopo da raggiungere che è quello di generare entrate e garantire che le cose siano redditizie per gli azionisti (cioè per coloro che possiedono le azioni della società) e che, perdere di vista gli interessi degli azionisti, che dovrebbero essere la parte principale da accontentare, ha il solo effetto di ritorcersi contro il successo dell’azienda e decretarne l’uscita dal mercato. Al contrario, lo scopo di un’azienda sembra sempre più quello di creare valore a lungo termine e non massimizzare i profitti e aumentare il valore per gli azionisti (come visto per il capitalismo degli shareholder) a scapito di altri gruppi di stakeholder. I sostenitori del capitalismo degli stakeholder hanno sempre creduto che servire gli interessi di tutti gli stakeholder, e non solo degli azionisti, sia essenziale per il successo a lungo termine di qualsiasi azienda. In particolare, sostengono che il capitalismo degli stakeholder è una decisione aziendale sensata oltre ad essere una scelta etica.

Anche questo approccio, tuttavia, non appare sufficiente a scalfire le contraddizioni del capitalismo che soprattutto nella finanza ha trovato la sua concreta realizzazione. In tale forma l’accumulazione capitalistica si è attuata sempre più una separazione dalla creazione di surplus di valore d’uso in quanto la finanziarizzazione ha reso sempre più autonomo il capitale dai propri precedenti supporti materiali, procurando effetti nefasti sulla occupazione, sulla precarizzazione del lavoro e sull’indebolimento delle piccole e medie imprese (7).

Lo sviluppo di una teoria finanziaria alternativa, a nostro modo di vedere, ha già trovato una elaborazione (ed una concreta pratica e teorica) nella così detta finanza islamica, che, come ci incaricheremo di illustrare, colpisce due dei principali paradigmi su cui si fonda l’attuale sistema capitalistico occidentale: il tasso d’interesse e la speculazione. Vediamo meglio, precisando già dall’origine che non si può comunque capire la natura della finanza islamica senza la comprensione del fatto che essa mira, almeno in teoria, alla giustizia sociale ed all’abolizione dello sfruttamento vietando, per esempio, l’investimento in attività che arrecano danno come gli alcolici, le scommesse o il tabacco.

Con il termine finanza islamica si intende, dunque, un modo di fare finanza che cerca di rispettare le norme islamiche della Sharia, ossia quell’insieme di regole che sono tratte dal Corano e che contengono anche riferimenti al mondo economico. La maggiore differenza rispetto al sistema occidentale è basata sul concetto di riba, che letteralmente in arabo significa “extra” e che di fatto è traducibile in termini più economici come interesse.  La Sharia (8), come ricordiamo anche il Cristianesimo per molti secoli, ha sempre considerato “usura” e, quindi, peccato l’interesse, cioè il prestare una quantità di denaro chiedendone in cambio una maggiore (9); per questo motivo la riba (divieto del tasso d’interesse) è severamente bandita dalla finanza islamica. 

I principi economici religiosi sui quali si basa la finanza islamica, tratti dal Corano, sono i seguenti: Riba; Gharar (divieti di incertezza) e Maysir (divieto della speculazione e gioco d’azzardo).  Il principio fondamentale per gestire l’incertezza e la speculazione consiste nel prevedere che ogni operazione bancaria e finanziaria islamica si basi sulla movimentazione di beni reali e che, di conseguenza, non si possano usare derivati per gestire il debito/credito. Inoltre, tutti i prodotti islamici, sia nel mercato di capitali che nei prodotti bancari al consumo, si strutturano sulla base di due metodi principali che garantiscono anche la conformità alla norma religiosa del divieto di interesse. 

Il primo è il c.d.  Profit – Loss Sharing, che consiste nella condivisione dei rischi e degli investimenti. I contratti principali sono: i. Mudarabah – contratto misto di capitale-lavoro in cui il rabb al mal investe il capitale e assume i rischi e i profitti dell’impresa, mentre il mudarib investe il suo lavoro e assume i profitti. ii. Musharaka – joint venture ovvero entrambi i contraenti condividono profitti e rischi. iii. Takaful: mutua assicurazione improntata sul PLS. 

L’altra tipologia è quella del non Profit-Loss Sharing, in cui rientrano tutte quelle tecniche di finanziamento che non si basano su un contratto di condivisione degli utili e delle perdite dell’operazione finanziata.  Nella maggior parte dei casi le tecniche di non-PLS si avvalgono di meccanismi di scambio di beni e servizi con l’applicazione di un mark-up sul prezzo di rivendita. I contratti principali sono la Ijarah (leasing di un bene acquistato dalla banca e offerto in uso al cliente per un periodo determinato), il Murabaha – finanziamento al consumatore che prevede l’acquisto da parte della banca di un bene poi rivenduto al consumatore con un mark up, un pagamento del servizio, predefinito, il Salam – pagamento anticipato per beni consegnati in seguito e l’Istisna – pagamento rateizzato di un finanziamento.

La finanza islamica nasce con Sayed Abu A’ala Maududi, teologo e politico pakistano tra i più importanti del XX secolo che, nel 1947, elabora una nuova scienza economica ispirata ai principi del Corano e nella prospettiva di una modernità islamica (10). ll primo istituto finanziario islamico nasce in Egitto, in un piccolo villaggio sulle sponde del Nilo, dove nel 1963 ad opera dell’economista Ahmad Al-Najjar viene creata la Cassa Rurale di Risparmio di Mit Ghamr che, grazie alla concessione di microcrediti, diede vita ad una classe di piccoli imprenditori privati.

Negli anni Settanta con il boom del petrolio si dà il via al diffondersi della finanza islamica prima con l’istituzione dell’Islamic Development Bank nel 1975 da parte della Organizzazione della Conferenza Islamica, seguita dall’apertura di una serie di istituti bancari negli Emirati Arabi Uniti, in Qatar, in Kuwait, in Arabia Saudita, in Malesia. Il primo Paese a convertire del tutto il proprio sistema bancario nazionale in base alla Shari’ah fu l’Iran, nel 1979, seguito da Pakistan e Sudan.

La seconda fase di crescita ed evoluzione avviene negli anni ’80, quando le banche islamiche approdano in USA e Gran Bretagna assieme agli studenti mediorientali e del sud est asiatico che immigrando in questi paesi contribuiscono al consolidamento di grandi organizzazioni musulmane come la Islamic Society of North America and Britain etc. Nonostante la crisi che ha investito i mercati finanziari con pesanti risvolti sull’economia reale, la finanza islamica, nel corso degli ultimi dieci anni, ha registrato un tasso medio di crescita globale degli asset Shari’ah compliant pari al 10-15% annuo negli ultimi dieci anni (circa il doppio del tasso di crescita delle attività convenzionali) mentre i ricavi delle Banche islamiche sono cresciuti negli ultimi cinque anni di circa il 44% annuo. Ciò è avvenuto, si badi bene, nonostante che il mercato finanziario islamico rappresenti soltanto l’1% circa delle attività finanziarie mondiali.

La finanza islamica, grazie al suo costante collegamento con l’economia reale (qualsiasi transazione finanziaria Shari’ah compliant, infatti, deve scaturire e/o avere come sottostante un bene di natura reale), in effetti offre una valida alternativa all’eccessiva ingegnerizzazione finanziaria odierna ed allo scollamento creatosi tra attività finanziaria e reale. 

Inoltre, i principi giuridico-religiosi della Shari’ah obbligano alla segregazione tra gli asset islamici e gli asset convenzionali. Ogni prodotto islamico deve essere certificato dallo Shari’ah Board, organo di controllo indipendente, composto da esperti in legge islamica (Shari’ah Scholar), che ha il compito di fornire interpretazioni vincolanti per il management (fatwa) sul rispetto dei principi della Shari’ah e di redimere eventuali controversie.

Oggi la finanza islamica ha ampliato il suo raggio di azione e si articola in tipologie di mercati e di relativi servizi e prodotti che possono essere individuati nell’Islamic banking offre servizi e prodotti bancari rivolti principalmente al mercato delle comunità immigrate in Europa e negli Stati Uniti e nell’Islamic finance-capital market, ovvero, nel mercato azionario islamico che offre obbligazioni islamiche e fondi azionari orientato ad attrarre in Europa e negli USA i grandi capitali provenienti dai paesi del Golfo (e che approda in Europa, con la prima obbligazione emessa in Germania nel 2004). Infine, il Halal market indirizzato al turismo islamicamente connotato, con i settori trainanti dell’alimentare e alberghiero. 

Gli snodi principali del mercato finanziario e bancario si trovano in Malesia, Indonesia, USA, GB e penisola araba, mentre in quei paesi che hanno ufficialmente islamizzato la propria economia (Brunei, Sudan, Pakistan, ecc.), essa non risulta particolarmente sviluppata. Ciò dimostra come a tutt’oggi essa è soprattutto un fenomeno che nasce dall’esigenza di coniugare la diversità di comunità che vogliono essere complaint con il credo religioso e che vivono ed operano all’interno dei mercati convenzionali (11). Anche l’Europa, come anticipato, si è aperta alla finanza islamica, a cominciare dall’Inghilterra che ha autorizzato nel 2004 la prima banca islamica retail (Islamic Bank of Britain) e dove operano oggi, oltre ad alcune Islamic windows di banche convenzionali, le seguenti cinque banche interamente islamiche, ovvero, l’Islamic Bank of Britain, con operatività retail, la European Islamic Investment Bank, la Bank of London and the Middle East, la European Finance House e la Gatehouse Bank. In altri paesi come la Germania, la Francia e l’Olanda, alcune banche convenzionali hanno lanciato prodotti finanziari appositamente creati per gli investitori musulmani. Fra le banche occidentali che hanno aperto Islamic windows possiamo citare Goldman Sachs & Co, HSBC, Barclays e Citibank. Nell’Eurosistema ad oggi, tuttavia, non sono ancora operative banche islamiche che offrono servizi retail, ma l’esempio britannico e le tendenze di crescita del settore lasciano ipotizzare che nel prossimo futuro banche islamiche possano avviare l’attività anche nell’area dell’euro. 

Tutto ciò detto, a nostro modo di vedere, la finanza islamica può rappresentare un punto di riferimento per riconvertire, in un sistema improntato alla democrazia, il capitalismo ad una logica più vicina agli interessi dei cittadini colpendo il nucleo centrale di quello che ha portato al c.d. capitalismo finanziario.

Tuttavia, le restrizioni poste dalla finanza islamica hanno reso detto sistema finanziario  immune dall’espansione della liquidità, dalla mania speculativa e dall’esposizione ai “titoli tossici”, che sono state tra le principali cause della crisi finanziaria che ha colpito l’occidente, non ha reso le banche islamiche completamente immuni dalla crisi finanziaria, confermando una progressiva “emancipazione” dell’economia e della finanza islamica dalla religione. In particolare, gli intermediari finanziari islamici sono stati severamente colpiti quando la crisi si è spostata verso l’economia reale, subendo la flessione del mercato immobiliare al quale sono molto esposte. 

Tuttavia, tali perdite non possono rimettere in discussione la capacità della finanza islamica di ridurre il rischio sistemico, ma piuttosto la sua capacità di svilupparsi in un contesto molto concorrenziale pur rimanendo coerente con i suoi obiettivi primari. In particolare, la necessità di offrire ai depositanti remunerazioni sufficienti a indurli a mantenere i loro fondi presso la banca, piuttosto che prelevarli ed investirli altrove, è stata identificata come l’origine di un rischio di liquidità che le banche islamiche non erano in grado di affrontare con gli strumenti finanziari islamici esistenti. 

Più nel dettaglio si è visto, infatti, che la ristrettezza dei canali di approvvigionamento e la mancanza di strumenti monetari efficienti e negoziabili hanno costretto le banche islamiche ad accumulare eccessive riserve in bilancio a fini prudenziali, a scapito però della loro redditività e della loro resilienza. Infine, l’analisi delle soluzioni alternative proposte da alcuni paesi (Malaysia in particolare) per gestire la liquidità a breve ha confermato la tendenza delle banche islamiche a adottare le prassi delle banche convenzionali per mancanza di strumenti monetari islamici sufficientemente liquidi ed efficienti. Ne è risultato, nei fatti, un progressivo avvicinamento del sistema finanziario islamico a quello convenzionale, attraverso un adeguamento alle logiche di mercato che sono alla base dei sistemi economici-finanziari occidentali. 

In definitiva, molte delle istituzioni finanziarie islamiche hanno adottato una strategia di contiguità con il mercato capitalistico che, a nostro modo di vedere, ha piuttosto ostacolato lo sviluppo del settore perché ne ha minato la credibilità (come soggetti della finanza islamica) e rafforzato le divergenze esistenti tra le diverse scuole giuridiche islamiche e i diversi paesi ospiti di banche islamiche. 

Per altro verso, non può sottacersi come l’adozione di un quadro regolamentare comune e lo sviluppo armonico della finanza islamica sono caratterizzati da ritardi che hanno origine dal perdurare di divergenze nell’approccio teorico-religioso alla finanza, di disomogeneità normative all’interno dei mercati nazionali, e della mancanza di un’adeguata regolamentazione dei mercati dei capitali che garantisca liquidità agli strumenti finanziari attualmente in circolazione e questo nonostante che, come sopra pur riportato, siano stati attivati vari organismi multilaterali incaricati proprio di stendere una disciplina il più possibile comune. 

Va da sé che la convergenza verso il sistema il quanto più possibile omogeneo è un passo assolutamente necessario, influendo in maniera significativa sulla credibilità, la stabilità sistemica e lo sviluppo coerente del sistema finanziario islamico. 

Il punto dolente del sistema alternativo rappresentato appunto dalla finanza islamica e che le varie crisi del sistema finanziario tradizionale hanno evidenziato, parte dalla necessità per le banche islamiche di costruire la propria identità e di creare un “mercato islamico della liquidità”, ovvero un mercato interbancario parallelo a quello convenzionale dove investire la liquidità in eccesso e reperire quella necessaria, secondo strumenti conformi alla Sharia. Dunque, a ben vedere fondamentale per il successo di tale finanza alternativa sta nella capacità e nel successo della crescita di strumenti liquidi alternativi e innovativi compatibili con la legge islamica. 

Evidentemente tutto questo è condizione necessaria ma non sufficiente in quanto è anche indispensabile che le banche islamiche (e le relative autorità di vigilanza) lavorino insieme per sviluppare un capitale umano necessario. In effetti, per supportare il sovvertimento dei principi di funzionamento dell’attuale sistema finanziario, è necessaria oltre che una profonda convinzione ideale, anche la presenza di specialisti. 

La carenza di personale adeguato, che non sia stato formato nelle università occidentali, ha costituito fino ad ora – dal nostro punto di vista – il vero ostacolo sull’innovazione e la gestione efficace dei rischi rilevanti per il settore, tra cui la mancanza di strumenti di copertura contro la volatilità del livello dei prezzi e di strumenti per la gestione della liquidità. E gli economisti specializzati non faticano a rilevare come la crescita del settore bancario islamico sarà possibile quando le banche svilupperanno la cultura e le conoscenze necessarie per promuovere più diffusamente gli strumenti basati sul principio di condivisione dei profitti e delle perdite.

Tutto ciò premesso, è senza dubbio vero che il periodo attuale sembra particolarmente favorevole all’emancipazione della finanza islamica ed al suo sviluppo. Da una parte, per motivi economici, perché le fasi “post-crisi” sono buone opportunità per riformare un sistema finanziario. Basti ricordare quello che è accaduto nel 1997 quando la Malaysia, rifiutando l’intervento del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, ha sviluppato il sistema finanziario islamico nazionale, rivolgendosi ai ricchi investitori sauditi per ottenere un pacchetto di salvataggio con prestiti e investimenti conformi ai principi della finanza islamica. Ma anche la probabile inversione delle politiche restrittive, che è chiesta a gran voce in Occidente dopo la fase degli interventi anti-deflattivi e che dovrebbe generare un periodo di bassi tassi d’interesse, dovrebbe essere una opportunità da cogliere per ripensare il funzionamento delle banche islamiche, in un’ottica più vicina ai testi sacri. 

Dall’altro, per motivi politici. Le guerre, in particolare quella in Medio Oriente sembra cementare l’opposizione all’imperialismo occidentale e rafforza l’identità culturale e religiosa della comunità musulmana, molti di più di quanto è pur accaduto nel 2001 con gli attentati alle Torri gemelle che hanno convinto gli investitori musulmani ad islamizzare il loro portafoglio, temendo i controlli più severi introdotti negli Stati Uniti dal Patriot Act (12). 

Sul tema dell’usura un contributo determinante potrebbe arrivare dalla Chiesa, atteso che, in un’economia dinamica come quella contemporanea, molti degli gli Stati dell’occidente garantiscono la loro sopravvivenza grazie al prestito a interesse che devo pagare sempre più alle lobby finanziarie internazionali.

Papa Francesco più volte è intervenuto sostenendo che “L’usura è un peccato grave: uccide la vita, calpesta la dignità delle persone, è veicolo di corruzione e ostacola il bene comune” e lo ha fatto in più occasioni pubbliche sottolineando anche come nessuno Stato, può programmare “una seria ripresa economica” con “tanti poveri, tante famiglie indebitate, tante vittime di gravi reati e tante persone corrotte”. (13) 

Sulla questione, pur nelle mutate condizioni economiche e sociali, i pronunciamenti ufficiali della Chiesa nei tempi moderni hanno sempre ribadito il nucleo centrale della dottrina tradizionale sull’usura, che è più che adeguatamente riassunta nella conclusione di un’Istruzione della S. Congregazione di Propaganda Fide, del 1873. Peraltro, il Catechismo della Chiesa Cattolica, approvato l’11 ottobre 1992 da Papa Giovanni Paolo II, pur non trattando espressamente il tema dell’usura, riporta nel commento del settimo comandamento i rilievi che insieme mantengono e innovano la dottrina tradizionale, i cui princìpi sull’usura sono sottesi. 

La Chiesa ha combattuto per secoli, confidando nella parola di Dio, l’esistenza stessa e poi il diffondersi sociale del prestito a interesse ed è sempre rimasta ferma nel principio che il denaro, in quanto tale, non produce denaro, perché, nella realtà, la sua apparente produttività è la conseguenza del frutto del lavoro dell’uomo. Dunque, il divieto dell’interesse è connaturale alla natura stessa della cosa, dalla giustizia commutativa insita nel rapporto di prestito. La circostanza, che gli uomini non siano facilmente disposti a prestare il loro denaro ad altri, se non sollecitati dalla molla dell’interesse, si spiega alla luce della decadenza della natura umana post peccatum (14). 

Se i capisaldi sono scritti nella pietra dei documenti della Fede, occorre pur tuttavia, provvedere alla “disintossicazione del corpo sociale impone il ritorno al principio per cui al lavoro dell’uomo va riconosciuto il primato sulle cose: il denaro non produce ricchezza da sé solo, ma soltanto se esso si piega al servizio dello sforzo, dell’impegno, della creatività e della responsabilità trasformatrice e creatrice del lavoro dell’uomo”. (15) E su questo punto noi Cristiani impegnati in economia attendiamo un forte richiamo del Papa che rinnovi e rifondi lo studio delle scienze economiche superando il principio utilitaristico che identifica il bene con l’utile che fa da base delle elaborazioni teoriche della moderna e riportando al centro la solidarietà e la costruzione di un sistema di valori fondato sui diritti umani.

  1. “Movimento storico del capitalismo”,  Dario Preti · Gruppo Albatros Il Filo 2023.
  2. Tra i tanti: “Capitalismo e lo stato. Crisi e trasformazione delle strutture economiche”, di Paolo Leon · 2014.
  3. L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Al suo interno sono stati individuati 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile – Sustainable Development Goals, SDGs – in un grande programma d’azione, per un totale di 169 traguardi da raggiungere. L’ Agenda 2030 e gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile sono entrati in vigore dal 1° gennaio 2016: i Paesi si sono impegnati a raggiungere tutti gli obiettivi nell’arco di 15 anni.
  4. Si fa riferimento ad un complesso di valori fondati su una profonda convinzione dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani, e dell’obbligo universale di alleviare la sofferenza, e di assicurare a chiunque il rispetto dei suoi diritti fondamentali e la risposta ai suoi bisogni essenziali. Questi valori fondamentali, ad esempio, sono stati ispirazione ed in parte stabiliti dal Codice di condotta per il movimento internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa e delle ONG nella risposta ai disastri. A tutt’oggi, il Codice è stato adottato da oltre 450 organizzazioni internazionali.
  5. Lo shareholder capitalism, di matrice anglosassone, ha dominato il mondo economico negli ultimi quarant’anni, ma ha dimostrato la sua inadeguatezza davanti alle sfide del presente, creando una situazione di insostenibilità sociale e ambientale. Sociale, perché ha creato diseguaglianze sempre più forti, senza essere in grado di assicurare la loro riduzione; ambientale, perché l’economia industriale si è sviluppata senza tener conto in modo stringente delle cosiddette “esternalità”: il consumo di risorse naturali non rinnovabili, l’inquinamento, le emissioni di gas serra responsabili del riscaldamento globale. Sono stati introdotti alcuni correttivi, come il meccanismo di scambio delle emissioni (Ets nell’acronimo inglese di Emission trading scheme) sancito dal protocollo di Kyoto, ma non sono stati sufficienti per porre un freno al degrado del Pianeta.
  6. Il capitalismo degli stakeholder. Un modello economico che mette al centro il progresso, le persone e il pianeta” Di Klaus SchwabPeter Vanham · Franco Angeli Edizioni, 2023
  7. Ö. Orhangazi, Financialization and the US economy, Edward Elgar, Cheltenham 2008; Orhangazi, Financialisation and capital accumulation in the non-financial corporate sector: A theoretical and empirical investigation on the US economy, 1973-2003, cit.
  8. Nell’Islam la Sharia è il complesso di regole di vita e di comportamento dettato da Dio per la condotta morale, religiosa e giuridica dei suoi fedeli. Nel significato metafisico, la sharīʿa è la Legge di Dio e, in quanto sua rivelazione diretta, rimane assoluta e incontestabile dagli uomini ed a tutt’oggi legge per i fedeli.
  9. Si tratta di un giudizio, quello del Cristianesimo che affonda le sue radici nell’Antico Testamento, ricco di passi che stigmatizzano il contegno usurario ed esortano a soccorrere il povero e il bisognoso. Fondamentali sul tema sono i passi contenuti nel libro dell’Esodo, 22, 24: «Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse»; nel Levitico, 25, 35-38, e nel Deuteronomio, 23, 20-21: «Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse. Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello, perché il Signore tuo Dio ti benedica in tutto ciò a cui metterai mano, nel paese di cui stai per andare a prendere possesso». I Profeti denunciano l’oppressione del governo e l’avidità del ricco. Il Salmo 15 definisce come ospite del Signore colui che «presta denaro senza fare usura, e non accetta doni contro l’innocente».  La dottrina contemporanea della Chiesa è adeguatamente riassunta nella conclusione di un’Istruzione della S. Congregazione di Propaganda Fide, del 1873, ripetizione di undici documenti che trattano di guadagni per interesse da prestiti. Per approfondimenti si veda “Usura E Cristianesimo. Per Una Storia Della Genesi Dell’Etica Moderna”, di Benjamin Nelson (Autore), Sansoni, 1967.
  10. 10.Fra i suoi lavori scritti, Maududi è ricordato per la sua esegesi coranica (tafsīr ) The Meaning of the Qur’an (Tafhim ul-Quran (lett. “La comprensione del Corano”)
  11. 11.G. Gomel et Al., Finanza islamica e sistemi finanziari convenzionali. Tendenze di mercato, profili di supervisione e implicazioni per le attività di banca centrale, in Questioni di Economia e Finanza (www.bancaditalia.it), ottobre 2010, n. 73. Banca D’Italia, Finanza islamica e sistemi finanziari convenzionali. Tendenze di mercato, profili di supervisione e implicazioni per le attività di banca centrale, in www.olir.it, 2011
  12. 12.La “Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001” ( Legge per unire e rafforzare l’America fornendo strumenti adeguati necessari per intercettare e ostacolare il terrorismo), è una legge federale statunitense controfirmata dal presidente statunitense George W. Bush il 26 ottobre 2001. Alla legge sono state aggiunte delle c.d. sunset provisions, norme che limitano la validità di alcune delle disposizioni del Patriot Act più lesive della libertà e della riservatezza dei cittadini, come quelle sul pieno accesso alle informazioni personali, al 31 dicembre 2005. Ma secondo varie organizzazioni, tra cui, l’organizzazione per i diritti civili ACLU, queste sunset provisions non bastano. Dello stesso avviso anche il Center for Democracy and Technology (CDT).
  13. 13.“DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI MEMBRI DELLA CONSULTA NAZIONALE ANTIUSURA”, Sala Clementina sabato, 3 febbraio 2018.
  14. 14. Nel dettaglio, al paragrafo 2411, ove è ribadito che i contratti sottostanno alla giustizia commutativa, fondamento di ogni altra forma di giustizia, che regola gli scambi fra le persone nel rispetto dei loro diritti e che obbliga strettamente ciascun contraente sotto pena di riparazione dell’ingiustizia nella forma della restituzione e nella parte sesta, paragrafo 2443, L’amore per i poveri  dove il testo richiama l’attenzione sui passi evangelici che tradizionalmente fondano il divieto del prestito a interesse. Nel paragrafo 2446 è, infine, richiamato l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) secondo cui «siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia» (Apostolicam actuositatem).
  15. 15.“ L’usura e la morale sociale cattolica” 20 febbraio 2017 – Autore: Mauro Ronco
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